Il bagaglio invisibile: cosa portiamo con noi quando cambiamo religione?
Il passaggio da una matrice religiosa occidentale di tipo cattolico a una tradizione spirituale d’origine asiatica, come il buddismo, non avviene in un vuoto culturale o psicologico. Chi proviene da un contesto cattolico – soprattutto se ha interiorizzato le componenti teologiche ed emotive più profonde e inconscie di questa tradizione, quelle che rientrano nel "non detto ma vissuto" – tende infatti a portare con sé, come un bagaglio invisibile, l’immagine di un Dio geloso, esigente e punitivo, nonché un diffuso senso di colpa. Questo bagaglio, se non opportunamente riconosciuto e rielaborato, solitamente si sovrappone alle nuove dottrine, generando “fraintendimenti” e, al limite, una forma di “contaminazione” impropria.
Il “Dio geloso” e il senso di colpa nell’orizzonte cattolico
La tradizione cattolica, erede dell’Antico Testamento oltre che del Nuovo, propone un Dio personale, con il quale l’individuo instaura un rapporto basato su obbedienza, fede e timore reverenziale. Il Dio dell’Antico Testamento è spesso presentato come un Dio geloso, che non tollera il culto di altri dèi, e che punisce se le sue leggi non vengono rispettate. Anche se il messaggio cristiano si sviluppa verso l’amore e la misericordia, non di rado, nella pratica quotidiana, molti credenti crescono con la sensazione di dover placare un’entità esigente, di dover continuamente dimostrare una devozione “pura” e “totale”. Associato a questo Dio vi è il concetto di peccato e della conseguente colpa, che diviene quasi un habitus psicologico: ogni deviazione dalla norma, dalla regola o dalla purezza può essere percepita come una macchia difficile da cancellare.
La natura non-teistica del buddismo e il ribaltamento dei presupposti
Nel passaggio al buddismo, per esempio, si incontrano invece presupposti radicalmente diversi. Il buddismo non poggia sull’idea di un Dio creatore, personale e giudicante. Non esiste una figura divina gelosa o punitiva. L’attenzione è posta sulla comprensione della sofferenza (dukkha) e delle sue cause, non sulla colpa innata dell’individuo. Le Quattro Nobili Verità e l’Ottuplice Sentiero mirano a offrire una via di liberazione dalla sofferenza attraverso la comprensione, la pratica meditativa, la condotta etica e la saggezza, non attraverso l’obbedienza a un’entità trascendente e il timore della punizione.
In questa nuova prospettiva, concetti come “senso di colpa” o “peccato” non hanno lo stesso ruolo. Il male, l’errore, la mancanza non sono offese personali a un Dio, ma condizioni generate dall’ignoranza (avidyā) della vera natura della realtà. Per chi proviene da un retroterra cattolico, questo può essere molto difficile da comprendere. Non ci sono più “comandamenti”, eppure chi proviene dalla tradizione cristiana potrebbe "crearseli" (per bisogno psicologico?) o comunque aderire a un sistema di regole che c’entrano poco o nulla con la natura del buddismo. È come dover riprogrammare il proprio modo di pensare la spiritualità: non più un Dio-giudice, ma un insieme di principi e indicazioni per trasformare la mente e il cuore. Se questo non avviene e si cercano sempre “regole”, la strada del fanatismo è imboccata.
I gruppi religiosi buddisti "istituzionali", specialmente nell'occidente cristiano, potrebbero non avere una sufficiente comprensione di queste problematiche. Dobbiamo quindi fare molta attenzione.
La confusione come ostacolo al cambiamento autentico
Il rischio è che chi compie questo cambiamento religioso, senza passare per una comprensione profonda delle differenze tra le due visioni del mondo, continui di fatto a pregare e meditare come se dietro ogni pratica si celasse ancora un’entità divina pronta a giudicare e a elargire premi o punizioni. Del resto, il concetto di karma può (erroneamente) assomigliare a un Dio giudice.
Invece di meditare per sviluppare presenza mentale, compassione e saggezza, si medita o prega con ansia, temendo di non soddisfare un’ideale o una regola. Invece di contemplare i precetti buddisti come strumenti per ridurre la sofferenza e favorire la liberazione, ci si sente in colpa per non essere abbastanza “bravi” o “puri”.
Questo atteggiamento rischia di snaturare il senso stesso della nuova religione: non c’è più un salto qualitativo nella comprensione, ma solo una trasposizione meccanica di vecchi schemi di colpa e timore in un contesto che non li richiede e non li giustifica.
Verso una comprensione più matura
Per evitare questa confusione, diviene essenziale lavorare su se stessi, con studio e introspezione. La persona che abbandona la tradizione cattolica a favore del buddismo (o di un’altra religione asiatica, come l’induismo, il taoismo o il jainismo) dovrebbe fermarsi a riflettere su quali siano i presupposti teologici, antropologici e psicologici della nuova dottrina. Questo può implicare la lettura di testi originali, l’apprendimento sotto la guida di un maestro qualificato, ma soprattutto un lavoro interiore per riconoscere e smantellare i residui della propria formazione religiosa precedente.
È un processo di disidentificazione: capire che il senso di colpa e la paura di un Dio geloso non sono intrinsecamente legati alla spiritualità, ma sono il risultato di una specifica visione religiosa e culturale. Solo assumendo questa consapevolezza si può sperimentare la nuova religione nella sua autenticità, comprendendone il messaggio liberatorio e la differente prospettiva sul mondo e sull’essere umano.
Note finali
In definitiva, chi proviene dal cattolicesimo e si apre ad un’esperienza religiosa di matrice asiatica corre il rischio di generare confusione interiore se non riconosce il proprio bagaglio psicologico e teologico pregresso. Il passaggio non è solo un cambio di “etichetta religiosa” ma richiede di comprendere a fondo un sistema di pensiero completamente differente. Solo attraverso l’elaborazione delle categorie interiorizzate, il distacco dal senso di colpa e la liberazione dal modello del “Dio geloso”, sarà possibile vivere appieno il percorso spirituale offerto da queste tradizioni, accedendo ad un panorama più ampio di significato e trasformazione personale.
Ad ogni modo, ricordiamoci che il "bagaglio invisibile" non riguardo solo la religione precedente, ma anche il sistema culturale ed economico neo-liberista in cui siamo inseriti. In particolare l'idea di "dover fare qualcosa" per ottenere un "determinato risultato" è profondamente radicata nella nostra cultura, ma c'entra poco o nulla con il buddismo.
Nel contesto culturale occidentale, la concezione del "fare per ottenere" è fortemente legata al materialismo e all'idea del controllo sugli eventi. Questa prospettiva è profondamente utilitaristica e orientata al futuro, dove ogni azione è vista come un mezzo per raggiungere un fine.
Il buddismo, invece, pone l'accento sulla consapevolezza dell'azione stessa, indipendentemente dal risultato. Non si tratta di eliminare il concetto di causalità (che nel buddismo esiste, ad esempio, nella legge del karma), ma di comprendere che l'attaccamento al frutto dell'azione è fonte di sofferenza. L'azione dovrebbe essere intrapresa con attenzione e presenza, senza aspettative rigide.
In sostanza, può esserci un conflitto di paradigmi: uno orientato al risultato e uno orientato al momento presente e alla consapevolezza.
Questo è un invito a riflettere su come il nostro modo di vivere sia influenzato da schemi culturali, e come il buddismo offra una prospettiva alternativa, più libera dall'ansia del "dover ottenere".
(10 dicembre 2024)
Perché non esiste l’anno zero nel nostro calendario?
Alcuni libri scolastici adottati dalla scuola italiana, che ho visto personalmente, insegnano il concetto del tempo come una linea retta senza interruzioni, sulla quale il punto 0 corrisponderebbe alla nascita di Cristo. Questa rappresentazione semplificata, seppur utile a uno scopo didattico elementare, è in realtà scorretta dal punto di vista storico e cronologico.
L’idea di un anno zero, che separi l’era avanti Cristo (a.C.) e l’era dopo Cristo (d.C.), non rispecchia il sistema di numerazione degli anni su cui si basa il calendario gregoriano, né il lavoro di Dionigi il Piccolo, il monaco del VI secolo che propose il computo del tempo secondo la nascita di Gesù. Quando Dionigi fissò questo punto di inizio, il concetto di zero non era comunemente usato nella matematica occidentale, pertanto il conteggio degli anni passò - e passa tuttora - direttamente dall’1 a.C. all’1 d.C. senza un anno intermedio.
Questo aspetto non è un semplice dettaglio tecnico, ma ha influenze sulla corretta comprensione degli intervalli cronologici. L’assenza dell’anno zero fa sì che il primo secolo della nostra era vada dall’1 d.C. al 100 d.C. e non dal 0 al 99, come qualcuno potrebbe erroneamente ritenere. Allo stesso modo, il secondo secolo inizia nel 101 e termina nel 200, il terzo comincia nel 201 e così via. Questa impostazione determina anche l’effettivo inizio dei millenni: il primo millennio va dall’anno 1 all’anno 1000, il secondo inizia nel 1001 e termina nel 2000, e il terzo prende avvio nel 2001.
Di conseguenza, il cambio di millennio non andava idealmente festeggiato quando le cifre dell’anno passarono a un numero tondo come il 2000, bensì all’inizio del 2001. Tuttavia, l’idea dell’anno 2000 come soglia simbolica fu così potente da scatenare festeggiamenti diffusi, alimentati anche da un forte impatto mediatico e commerciale. Le celebrazioni del nuovo millennio non si basarono sulla corretta nozione di calcolo degli anni, ma su un bisogno psicologico e culturale: il numero 2000, perfetto e tondeggiante, comunicava una sensazione di svolta epocale, più facilmente assimilabile dall’opinione pubblica rispetto alla precisione cronologica.
Questo tipo di confusione storica si è presentato anche nel passaggio da altri secoli, come quando ci si affrettò a festeggiare la fine del XIX secolo nel 1900, ignorando che il XX secolo sarebbe iniziato solo con il 1901.
Dal mio punto di vista, sarebbe auspicabile che i materiali didattici fossero più chiari nel distinguere tra semplificazioni simboliche e dati storici, sia su questa che su altre questioni. Una maggiore precisione contribuirebbe a una comprensione più profonda della nostra cultura cronologica e del modo in cui il nostro calendario si è sviluppato.
La complessità del tempo storico e del suo racconto non è riducibile a una semplice linea retta, bensì un insieme articolato di convenzioni, scelte e interpretazioni stratificatesi nei secoli.
Per inciso, il tempo come linea retta è una invenzione del cristianesimo. Sant'Agostino contribuì in modo significativo a questa concezione lineare del tempo attraverso la sua opera "Le Confessioni" e altri scritti filosofico-teologici come il "De Civitate Dei" (La Città di Dio). In estrema sintesi, secondo la dottrina cristiana, il tempo inizia con la creazione del mondo da parte di Dio e terminerà con la fine dei tempi, il Giudizio Universale. Questa visione si fonda sulla narrazione biblica. Sant'Agostino sottolinea che il tempo non è un eterno ritorno, ma una linea retta che va dalla creazione alla redenzione, con una direzione e uno scopo determinati da Dio. Su questa visione lineare del tempo, si fondano la nostra cultura e il nostro calendario.
Prima del cristianesimo, molte tradizioni culturali e filosofiche, specialmente quelle legate alla mitologia greca e al pensiero orientale, avevano una visione ciclica del tempo. Per i greci antichi, l'induismo e il buddismo il tempo non è lineare, quindi stiamo attenti a non concepire come "dato di fatto universale" ciò che è primariamente un relativismo culturale.
(10 dicembre 2024)
Non è una questione di tecnologia, ma di pensiero
Dal grande chiacchiericcio tra chi osanna l'intelligenza artificiale e chi la disprezza come una delle massime abilità umane di auto-perculamento, mi allontano, in silenzio.
Serve altro.
Non è un problema di tecnologia, perché su quella non possiamo più fare nulla. Sì, certo, c'è il "software libero", ma... ormai qualsiasi flusso di dati, privato o pubblico, decente o indecente, sensato o incomprensibile, finisce nell'incurabile e insaziabile ingordigia delle intelligenze artificiali, che imparano da noi e su di noi per ogni stronzata che diciamo o scriviamo.
Da questo non c'è più scampo, così come non c'è altra possibilità per chi sta in basso dall'essere violentato e umiliato da chi sta in alto. La politica non è questione di destra o sinistra, ma di alto e basso, di caporali sopra e poveri disgraziati sotto. I caporali possono spegnere le nostre vite quando e come vogliono, e non mi riferisco solo al fu "green pass", che tra le tante aberrazioni neonaziste è la meno grave. Guardiamoci attorno... oggi ho visto alcuni filmati da Gaza. Chi non li sta vedendo se li cerchi. Da tutto questo non c'è tecnologia che possa salvarci.
L'unica alternativa, ammesso che un'alternativa possa esistere, sta nel "retto pensiero", che a sua volta è parte dell'ottuplice sentiero. Sulla Treccani, alla voce Buddismo, leggiamo: «[...] l’errata concezione di un’individualità distinta e costante nel tempo e l’attaccamento a questa è la principale causa di duḥkha [...]». Duḥkha vuol dire sofferenza, nel senso di insoddisfazione presente in ogni istante delle nostre vite. Tutto qua, sentirci individui separati è la causa principale delle nostre sofferenze, questo è il riassunto di due millenni e mezzo di buddismo. La soluzione parte dal "retto pensiero".
E qual è questo "retto pensiero"? Quando siamo titubanti sul da farsi, ricordiamoci di «aiutare l'altro, chiunque sia, anche sconosciuto», perché è un povero cristo come me, come te, come tutti gli altri, costretto a infinite umiliazioni, ingiustizie, violenze. Certo, il Vangelo di Matteo ha usato parole più raffinate e forse imbarazzanti nella loro grandiosità: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Ama il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti». Detto così fa paura?
Basterebbe anche molto meno. Quando facciamo un gesto o una scelta che a noi toglie poco o nulla, o che comunque è facilmente sopportabile, ma che può essere di grande aiuto per qualcun altro... beh, abbiamo vinto sulla natura demoniaca del potere. Quando invece ci sentiamo in competizione con tutti, cioè in guerra, nel senso che non ce ne frega più nulla di aiutare qualcun altro, se non per nostro tornaconto economico o di altro genere, allora abbiamo perso, perché stiamo lavorando per quel potere che ci vuole proprio così, divisi e infelici.
Per chi volesse approfondire il "retto pensiero" nel senso inteso dal buddismo, esso si riferisce a sviluppare una mente libera da avidità e desiderio ossessivo, a coltivare pensieri di gentilezza amorevole (mettā) e compassione verso tutti gli esseri senzienti, senza malanimo né odio, e all'intenzione di non fare del male, di non danneggiare gli altri, né con le parole né con le azioni.
Non è difficile, anzi, è una sana medicina per tutti noi.
(7 dicembre 2024)
Dalle basi di Java ai microservizi con Spring Boot
«La conoscenza è come un fuoco: se non la alimenti condividendola, si spegne». Per questo motivo, condivido questi miei corposi appunti, che ho trasformato in un libro strutturato per agevolare l'apprendimento e la preparazione a colloqui di lavoro.
Per la pubblicazione mi affido al mio blog, anziché ad un libro stampato, perché l'uso di manuali cartacei è sempre più desueto tra noi programmatori, che solitamente cerchiamo e troviamo tutto online. Gli scaffali delle biblioteche e delle librerie sono ormai pieni di libri di informatica costosi, chiusi e impolverati, ma «un libro chiuso è solo carta».
Tieni a mente che questo testo può contenere errori o imprecisioni. Non ho risorse per fare una revisione accurata, che solitamente andrebbe affidata a terzi.
Che tu stia imparando Java per la prima volta, approfondendo la tua conoscenza per progetti avanzati o preparando un colloquio tecnico impegnativo, spero di darti una mano nel tuo studio.
Francesco Galgani, 7 dicembre 2024
Nota: La prima versione dei miei appunti su Java risale al 2006, questa versione arriva 18 anni dopo. Ti segnalo anche: "Le mie attività di sviluppatore e di didattica del software" e "Sviluppare app multipiattaforma con Codename One".