Noi povere creature fragili

Da tempo siamo consapevoli del periodo terminale e apocalittico dell’umanità e di tutte le creature.

Ormai abbiamo sostituito le vane speranze di poter far qualcosa con l’accettazione della sofferenza per quello che è. Il primo passo per pacificare la mente è accettare la sofferenza, senza opporsi allo svolgimento della vita. Il secondo passo è meditare sul fatto che tutto è impermamente, fragile, destinato a estinguersi, esattamente come noi. Tutto è un dono da apprezzare, perché poi non ci sarà più.

Forse, come persone e come popoli, ci ritroviamo esattamente nella situazione in cui ci troviamo perché è di qui che “dobbiamo” passare.

Tutto ciò che ha inizio ha anche fine, come i nostri respiri. E ogni cosa esiste perché esiste la sua opposta: l’inspirazione esiste perché esiste l’espirazione, e viceversa. Nulla esiste di per sé e nulla rimane com’è.

E’ tutto un grande mistero in cui gli stessi concetti di esistenza e di non esistenza perdono di significato.

Cos’è reale? Ciò che crediamo tale, o qualcos’altro?

La sofferenza c’è, perché vita e sofferenza vanno insieme. Come già ho scritto in una recente riflessione, siamo fragili carte di un castello di carte posato su un tavolo traballante, pronte a cadere. Ma finché resisteremo, nel nostro equilibrio delicato e precario, possiamo provare a fare qualcosa di buono per quel che a ciascuno di noi è concesso. E se neanche qualcosina c'è concesso, non rimane che "amare" nel senso più grande del termine.

(21 ottobre 2024)

Vedere l'invisibile: un viaggio dalla scacchiera di Adelson alla Bhagavad Gita

L'illusione dell'ombra nella scacchiera di Adelson è un'affascinante dimostrazione di come i nostri sensi possano ingannarci. In questa illusione ottica, due quadrati che appaiono di colori diversi, a causa dell'ombra proiettata su una scacchiera, sono in realtà dello stesso colore. Il nostro cervello, influenzato dalle ombre e dai contrasti circostanti, interpreta erroneamente le informazioni visive, portandoci a percepire una realtà distorta. Ecco una dimostrazione pratica, a cura di brusspup:

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Questo fenomeno dimostra come la nostra percezione del mondo sia facilmente ingannevole. Spesso accettiamo ciò che vediamo senza mettere in discussione la sua veridicità, rimanendo intrappolati nel nostro modo consueto di osservare le cose. Solo quando scegliamo di mettere in dubbio le nostre percezioni e il modo ordinario di intendere la vita, possiamo iniziare a scoprire una realtà diversa.

Come è scritto nella *Bhagavad Gita*, capitolo 2, verso 69:

"या निशा सर्वभूतानां तस्यां जागर्ति संयमी |
यस्यां जाग्रति भूतानि सा निशा पश्यतो मुने: ||"

Per comprendere appieno questo verso, procediamo passo per passo.

Traslitterazione:

Yā niśā sarvabhūtānāṁ tasyāṁ jāgarti saṁyamī |
Yasyāṁ jāgrati bhūtāni sā niśā paśyato muneḥ ||

Divisione delle parole:

→ ciò che
niśā → notte
sarva-bhūtānām → di tutti gli esseri
tasyām → in quella
jāgarti → è sveglia
saṁyamī → la persona disciplinata
Yasyām → in cui
jāgrati → sono svegli
bhūtāni → gli esseri
→ quella
niśā → notte
paśyataḥ → per il veggente, colui che vede
muneḥ → del saggio

Ricostruzione del significato complessivo:

"Ciò che è notte per tutti gli esseri, in quella è sveglia la persona disciplinata; ciò in cui gli esseri sono svegli, quella è notte per il saggio che vede."

Questo verso ci insegna che la realtà è percepita diversamente da chi ha raggiunto una profonda comprensione. Mentre la maggior parte delle persone è "addormentata" rispetto a certe verità, il saggio rimane vigile e vede oltre le apparenze. Allo stesso modo, ciò che è ovvio per gli altri può essere illusorio per colui che ha occhi per vedere veramente. Questa riflessione ci invita a superare i nostri limiti percettivi e a osservare il mondo con una consapevolezza rinnovata.

Proviamo ad approfondire il significato di saṁyamī, fin qui tradotto come "persona disciplinata":

  • saṁ - un prefisso che significa "insieme", "completamente", "perfettamente"
  • yamī - derivato dalla radice "yam", che significa "controllare", "disciplinare", "restrizione"

Nel verso citato, saṁyamī si riferisce a una persona che ha raggiunto un alto grado di autocontrollo e disciplina interiore. Questa persona è in grado di:

  • Controllare i sensi  Non è sopraffatta dalle percezioni sensoriali o dalle attrazioni mondane.
  • Dominare la mente  Ha una mente stabile, non agitata da pensieri erranti o emozioni turbolente.
  • Raggiungere la consapevolezza superiore  È sveglia alle realtà spirituali che sono generalmente nascoste o ignorate dalla maggior parte delle persone.

Ciò che è importante e reale per il saṁyamī può sembrare insignificante o inesistente per gli altri, e viceversa.

Un saṁyamī non è schiavo dei desideri o delle avversioni, mantiene l'equilibrio mentale in situazioni favorevoli e sfavorevoli. Segue principi morali elevati. Pratica virtù come la non-violenza, la veridicità e la compassione.

Il saṁyamī riconosce le illusioni, comprende che ciò che appare reale potrebbe essere illusorio e viceversa.

(19 ottobre 2024)

Castelli di carte

Cosa sono le nostre vite, se non fragili carte di un castello improvvisato, in bilico su un tavolo traballante? E cosa sono le nostre idee, se non carte ancor più precarie, poggiate sul tavolo del linguaggio, delle credenze e dei bisogni?

Come nessuna carta può reggersi da sola, così nessuna idea può esistere senza il sostegno di altre. Anche l'idea più bella, geniale o seduttiva è nulla se non sorretta da altre idee, tutte altrettanto fragili, tutte di per sé inesistenti. Così è per le nostre vite e per le nostre illusioni.

Forse, più che chiederci se un'idea sia buona, giusta o corretta, dovremmo domandarci perché l'abbiamo concepita. Cercare le vere motivazioni ci rivelerà qualcosa di profondo su noi stessi e sulle nostre debolezze.

Prendiamo, ad esempio, il concetto di karma, che per molti di noi è un pilastro fondamentale. Ma non è forse la nostra risposta al bisogno di una giustizia e di una meritocrazia che la vita quotidiana, troppo spesso, ci nega? Non è forse un modo per dare senso al caos, all'ingiustizia, alla crudeltà e alle barbarie della vita?

E Dio? Perché abbiamo creato l'idea di Dio? Forse perché sappiamo di essere anime perse, smarrite nella ricerca di un significato dell'esistenza?

Dietro ogni idea, c'è sempre un motivo. E più le idee sono grandi, grandiose o universali, più possono rivelare le nostre miserie interiori.

Il discorso che propongo trascende la dicotomia tra verità e falsità, poiché, da questa prospettiva, la verità è inafferrabile, svanendo nel momento stesso in cui pare d'averla scorta. Eppure, avere fede resta qualcosa di prezioso, forse l'unica cosa che ci rimane quando accettiamo l'insondabilità del reale.

Siamo carte miracolosamente in equilibrio su un tavolo traballante. Quanto durerà questo equilibrio? Durerà quel che durerà, cioè poco.

(17 ottobre 2024)

Castelli di carte (Francesco Galgani's art, October 17, 2024)
(Go to my art gallery)

Perché la tecnica ci piace più della natura?

L'essere umano, creatura fragile e consapevole della propria finitezza, sviluppa un'attrazione profonda per i propri manufatti tecnologici. Essi sono visti come esempi di perfezione, bellezza e desiderabilità, tanto che, spesso, vorremmo essere come loro, cioè immutabili, esenti dal dolore e dalle imperfezioni che caratterizzano la nostra condizione. Come specie vivente siamo particolarmente inclini, rispetto alle altre creature, a cercare rifugio nell'artificiale e a preferirlo al naturale. Anzi, siamo l'unica forma di vita terrestre ad avere questa tendenza. Indubbiamente questo fenomeno è alimentato dalla natura della nostra mente, che rispetto agli altri primati è l'unica ad avere interesse per il pensiero simbolico, che è alla base del linguaggio e del pensiero astratto. Ma dietro questo comportamento così innaturale di prendere rifugio nell'artificiale c'è molto altro.

Il problema risiede nella natura stessa della nostra esistenza, che ci appare fondamentalmente misera e imperfetta. Siamo esseri nati senza saperne il perché, tra sangue, urina e talvolta feci, come qualsiasi altro mammifero. O meglio, a questo "perché" diamo tante risposte più o meno consolatorie, che hanno a che fare con il karma, con Dio, con il caso, con il caos, con l'amore, con la reincarnazione, con la necessità o con la scelta volontaria, con la sola biologia o con il nulla cosmico, ma, a prescindere dalle tante possibili spiegazioni tra loro alternative, la nostra venuta al mondo è sporca e dolorosa, e così è la nostra fine, destinati a tornare alla terra, a decomporci nel putridume. Tra l'inizio e la fine, siamo soggetti a innumerevoli malattie, sofferenze e problemi, e nessuno di noi, che sia re o suddito, può sfuggire a questa realtà. Siamo tutti ugualmente esposti alla crudezza della vita.

La tecnologia, in questo senso, diventa un rifugio. La sua presenza ci circonda e ci rassicura, offrendoci l'illusione di poter sfuggire, almeno temporaneamente, alla brutalità della nostra condizione. Il prodotto tecnologico, essendo non-vivo, è un ideale, una perfezione cristallizzata, esente dalle degenerazioni che affliggono la carne. Non nasce, non invecchia, non si ammala, non muore, permane così com'è, sfuggendo al tempo e alla decadenza. E in questa sua imperturbabilità, troviamo una rassicurazione quasi religiosa.

Non è forse vero che, fin dall'alba dei tempi, abbiamo cercato di proiettare nell'ideale divino queste stesse caratteristiche? L'eternità, l'incorruttibilità, l'infallibilità sono attributi che, nella nostra immaginazione, abbiamo sempre attribuito alle divinità, e in fondo, la tecnologia non è che una nuova forma di divinità laica. In un mondo sempre più secolarizzato, ciò che un tempo cercavamo nel cielo oggi lo troviamo nei nostri dispositivi, nei nostri sistemi intelligenti, nelle nostre macchine.

Un esempio evidente è l'intelligenza artificiale. La sua (apparente?) capacità di elaborare informazioni, risolvere problemi e migliorare costantemente se stessa senza mai invecchiare o ammalarsi, esistendo in un non-luogo (quello delle idee) e in un non-tempo (come qualsiasi altro software), la rende simile a un ideale platonico: pura forma, pura funzionalità. Il nostro pensiero simbolico, precedentemente accennato e unico fra le creature terrestri, ci suggerisce, se non addirittura ci "obbliga a credere", che il mondo materiale non sia la vera realtà, ma solo una copia imperfetta di una realtà superiore.

Una volta questa realtà superiore era proiettata solo nella vita ultraterrena, come esemplificato da questo passo del Corano: «Questa vita terrena non è altro che gioco e trastullo. La dimora ultima è la [vera] vita, se solo lo sapessero!» (Sura 29, Versetto 64). Pensieri simili si trovano in tutte le religioni e filosofie antiche. Tutti i mistici cercano di fondersi con questa realtà superiore e molte forme di meditazione fanno altrettanto. Oggi, tuttavia, noi esseri comuni, confusi e immersi nei problemi, siamo persuasi e illusi di vedere un riflesso di questa realtà superiore nella tecnologia.

Ma non è solo una questione di intelligenza artificiale. La stessa fascinazione vale per le opere d'arte, le costruzioni architettoniche, i macchinari, le poesie. Ogni creazione umana, che sia una macchina, un dipinto, un romanzo, una musica o una voce registrata è una sfida lanciata all'impermanenza e alla morte. Ciò vale persino per i primi disegni (scarabocchi?) di un bambino, che chi li osserverà con amore vedrà pari a capolavori. Con ogni nostro prodotto creativo cerchiamo di fissare un istante, di fermare il tempo, di catturare un momento di bellezza che non sfugga alla corruzione e alla dissoluzione.

In questo senso, la tecnica e l'arte si uniscono in un medesimo progetto: offrirci un'illusione di eternità. Ma c'è una sottile ironia in tutto questo. Pur creando oggetti che sembrano liberarci dalle catene della nostra mortalità, in realtà non facciamo altro che riaffermare la nostra condizione. La nostra adorazione per la tecnologia e l'arte rivela, alla fine, una profonda nostalgia, ovvero il desiderio di un mondo che non sia soggetto alle leggi della biologia, un mondo dove non si nasca e non si muoia, dove il dolore e la sofferenza siano assenti. È un sogno di eternità, di permanenza, di astrazione e di purezza che (per fortuna?) resterà sempre confinato al regno delle idee e delle speculazioni fantasiose di altri mondi, mentre la realtà, quella della carne e della natura, continuerà a mostrarci la sua indifferenza alle nostre illusioni, con la sua durezza, con il suo corso ineluttabile di piccole gioie e grandi tragedie. E' possibile che l'attrazione per mondi e creature a noi sconosciuti e alieni, o per enti puramente spirituali, nasca proprio dalla speranza, cioè dall'illusione, che altrove tutta questa sofferenza non ci sia o che sia stata risolta.

A ben vedere, però, se anche dessimo per certo l'Aldilà, popolato dalle anime dei nostri cari defunti, da angeli, da demoni, e da innumerevoli tipi di creature che neanche immaginiamo e che potrebbero provenire da altri mondi o creazioni, perché mai dovremmo pensare che non soffrano come noi o più di noi? Giusto per fare un esempio e non parlare solo di teorie, basterebbe notare che chi pratica i cosidetti "viaggi astrali", detti anche "Out of Body Experience" (OBE), riferisce scene e situazioni che sono simili a quelle della vita quotidiana terrestre, incluso il mangiare, socializzare, lavorare o esplorare ambienti familiari. C'è anche chi riferisce di aggressioni, violenze e di eventi terrificanti. Quindi sembrerebbe che l'Aldilà non sia così diverso dall'Aldiqua. Potrebbe non esserci nessun rifugio dalla sofferenza, né di qua, né di là.

E così, nel frattempo, in attesa di morire, ci aggrappiamo ai nostri manufatti, sperando di trovare in essi una risposta, un conforto, un modo per trascendere la nostra condizione. Ma forse, nel farlo, stiamo solo scambiando la verità per un'illusione di eternità, senza mai affrontare davvero la nostra finitudine.

A questi motivi di fascinazione della tecnologia, possiamo aggiungere la sua incorruttibilità morale, in quanto non soggetta alle debolezze, tentazioni e perversioni di chi, avendo coscienza, anima e carne, può scivolare nelle peggiori bassezze di cui l'essere umano ha grande e impareggiabile esperienza. In questo senso, un'intelligenza artificiale non aggredibile dalle suggestioni del diavolo sembra più divina e più suggestiva della resistenza di Gesù alle tentazioni di Satana durante i quaranta giorni di digiuno nel deserto. Anzi, a dirla tutta, mentre è raro che qualcuno prenda il digiuno e la resistenza alle tentazioni come modello di vita, e ancor meno probabile che ambisca a finire in croce, è molto più verosimile che tante anime sofferenti sognino di potersi anche solo un po' avvicinare alla "grandezza" (?) dei nostri artefatti tecnologici, come ChatGPT e altri. Da qui nasce l'ideale del transumanesimo e la sua ambizione di trasformare radicalmente la natura umana per il tramite dell'ibridazione con la macchina. L'impianto di dispositivi elettronici nel cervello umano (BCI, Brain-Computer Interface), come già stanno facendo Neuralink, Synchron, Blackrock Neurotech, CereGate, Kernel, Paradromics, BrainCo e altre aziende è solo l'inizio.

Forse l'unica via per superare questo grande inganno, questa nostra autodistruzione motivata dalla preferenza di ciò che è morto (la tecnologia) rispetto a ciò che è vivo (la natura), sta nell'accettare la miseria e lo schifo delle nostre vite per quello che è, con la consapevolezza che quello che c'è di bello è proprio all'interno dei limiti delle nostre deboli esistenze e dei nostri deboli sentimenti. Oltre quei limiti, non c'è nulla, se non la seduzione di ciò che non c'è e che mai potrà esserci.

Anche la ricerca della felicità, ammesso che essa possa avere qualche significato nel piano infernale dell'esistenza in cui, come genere umano, ci ritroviamo, ha senso soltanto entro tali limiti, oltre i quali ci saranno soltanto disperazione e stridore di denti, a causa della nostra non-volontà di accettare la vita per quello che è. Se ponessimo fine alla nostra cruenta e inutile guerra contro la natura e i suoi limiti, forse saremmo già felici.

Oserei dire che la felicità inizia con l'accettazione della sofferenza e delle sue molteplici forme, malattie e morte comprese. Del resto, i saggi e i santi non hanno mai rifiutato i dolori fisici ed emotivi. Ne abbiamo un'infinità di esempi, per chi li vuol vedere. Le loro vite sembrano creare una sovrapposizione tra le parole "felicità" e "fede", ma le parole sono troppo limitate e solo l'esperienza vissuta è maestra.

Stiamo attenti alle nostre illusioni e alle sofferenze inutili che ne derivano.

(10 ottobre 2024)

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