Semplice dimostrazione che DeepSeek è un clone di ChatGPT?

A gennaio 2025, DeepSeek, una startup cinese specializzata in intelligenza artificiale, è stata al centro di una controversia internazionale. OpenAI e Microsoft hanno avviato indagini per verificare se DeepSeek abbia utilizzato in modo improprio i dati di ChatGPT attraverso l'API di OpenAI, violando i termini di servizio. Si sospetta che DeepSeek abbia impiegato una tecnica chiamata "distillazione", con la quale un modello più piccolo apprende da uno più grande già addestrato. Sebbene DeepSeek affermi di aver utilizzato modelli open-source di Meta e Alibaba, non ha fornito dettagli completi sui dati di addestramento impiegati.

A suo tempo, non ho scritto nulla in questo blog, perché ho trovato questa discussione alquanto sterile. OpenAI ha copiato "il mondo intero" senza riconoscere nulla a nessuno, non ha reso pubblici i dati di addestramento, ha violato impunemente qualsiasi legge sul copyright e sulla privacy, e per di più richiede abbonamenti che vanno da 25 euro mensili per un uso comunque molto limitato, fino a circa 250 euro mensili per un uso completo.

Se DeepSeek ha fatto una memorabile e sonora pernacchia a OpenAI, così come Totò la fece a un tenente tedesco nel film "I due marescialli", ben venga!

Comunque, DeepSeek ha copiato o no ChatGPT? Direi proprio di sì... guardate qui, è uno screenshot fatto con il mio computer. La risposta alla mia domanda tradisce la reale provenienza di DeepSeek, che afferma di essere un prodotto di OpenAI:

DeekSeek OpenAI

(18 aprile 2025)

L'uomo non è il vero artefice

Nel cuore della Bhagavad Gita, un antico testo sacro indiano parte del grande poema epico Mahabharata, si cela una verità profonda che sfida il nostro comune senso di autonomia personale. Intanto leggiamo un paio di versi, poi li commenteremo:

3.27
Tutte le azioni sono compiute dai guṇa (le forze della natura); l’anima, illusa dall’ego, pensa "io sono l'agente".

18.66
Abbandona ogni altro dovere e rifugiati soltanto in Me; io ti libererò da ogni conseguenza, non temere.

Queste parole portano con sé una riflessione che attraversa millenni, con domande sulla natura dell'azione umana, della libertà e del destino.

La Bhagavad Gita, letteralmente "Il canto del Beato", è un dialogo filosofico e spirituale tra due personaggi principali: Krishna e Arjuna. Krishna, manifestazione terrena della divinità suprema Vishnu, rappresenta il maestro spirituale per eccellenza. Arjuna, il valoroso guerriero, è l'allievo che affronta una profonda crisi morale e spirituale di fronte alla guerra imminente contro i suoi stessi parenti e maestri.

L'intero testo si svolge sul campo di battaglia di Kurukshetra, poco prima di una grande guerra tra due fazioni imparentate, i Pandava e i Kaurava, per la supremazia sul regno. Arjuna, scosso e turbato dall'idea di dover combattere contro parenti e amici, mette in discussione il senso stesso del dovere, del destino e della morale. È in questo momento di dubbio esistenziale che Krishna gli impartisce insegnamenti destinati a influenzare profondamente la spiritualità e la filosofia dell'induismo.

Uno degli insegnamenti cardine che Krishna trasmette ad Arjuna è il concetto che l'uomo non sia il vero artefice delle proprie azioni. Questo non significa, tuttavia, che l'individuo sia totalmente privo di libertà o responsabilità. Piuttosto, Krishna indica che dietro ogni azione umana agiscono i guṇa, le tre qualità o principi fondamentali che costituiscono la materia e regolano l'universo. Queste tre qualità – sattva (armonia, purezza), rajas (passione, attività) e tamas (inerzia, oscurità) – determinano i comportamenti e le attitudini degli esseri viventi.

Secondo la Gita, l'illusione principale dell'uomo è credere di essere il diretto artefice delle proprie azioni, dimenticando che il vero motore delle attività è la natura stessa, governata dalle leggi divine. Quando l'uomo, guidato dall'ego, si appropria delle azioni compiute, cade in una sorta di trappola esistenziale, generando attaccamenti, desideri e sofferenze che lo imprigionano nel ciclo infinito del karma, la legge di causa ed effetto. 

Per usare una metafora, è come se un burattino (l'uomo), mosso dai fili della natura (Prakriti), credesse di danzare per propria volontà, dimenticando che il vero regista è Dio (Krishna). Quando il burattino si identifica con i suoi movimenti, sviluppa attaccamento alle azioni, alimentando così il ciclo del karma.

Ogni volta che l’uomo si identifica con le proprie azioni ("io agisco", "io godo", "io soffro"), genera attaccamento ai risultati (successo o fallimento) e desiderio di ripetere l’esperienza. Questo meccanismo crea vasana (tendenze mentali) e samskara (impressioni karmiche), che lo legano a nuove azioni future, mantenendolo prigioniero nel samsara – il ciclo di nascita, morte e rinascita. Liberarsi da questa catena richiede akarma (agire senza attaccamento), come insegnato da Krishna:

9.27
Qualsiasi cosa tu faccia, qualsiasi cosa tu mangi, qualsiasi cosa tu offra come offerta al fuoco sacro, qualsiasi cosa tu dia in dono e qualsiasi austerità tu compia, o figlio di Kunti, falla come offerta a Me.

9.28
Dedicando a Me tutte le tue opere, sarai liberato dalla schiavitù dei risultati buoni e cattivi. Con la mente attaccata a Me attraverso la rinuncia, sarai liberato e mi raggiungerai. 

Come un’onda che crede di essere separata dall’oceano, l’uomo dimentica che la sua forza deriva da Krishna, la sorgente di ogni energia.

Krishna invita Arjuna, e attraverso di lui ogni essere umano, a superare questa illusione per raggiungere una condizione spirituale superiore. Ciò non significa passività o inattività, bensì compiere il proprio dovere senza attaccamento ai frutti delle azioni. Questo atteggiamento, noto come "karma yoga", rappresenta l'agire consapevole, dove l'individuo svolge i propri compiti con impegno e dedizione, ma lascia andare il senso di proprietà personale sull'azione.

Krishna chiarisce ulteriormente questo punto dicendo che tutto ciò che accade nel mondo è, in definitiva, governato da una volontà divina superiore. Gli eventi della vita umana, inclusi successi e fallimenti, sono già inclusi nel grande disegno cosmico della divinità. Ciò non nega la libertà personale, ma invita a collocare questa libertà in una prospettiva più ampia, dove l'essere umano è chiamato a collaborare consapevolmente con il piano divino, piuttosto che lottare contro di esso.

Nell'undicesimo capitolo della Bhagavad Gita, Krishna rivela ad Arjuna una visione cosmica della sua vera forma divina (Viśvarūpa), che abbraccia passato, presente e futuro, dimostrando così come tutti gli eventi siano già predestinati:

11.13
Lì Arjuna poté vedere la totalità dell'intero universo stabilita in un unico luogo, in quel corpo del Dio degli dei.

Qui Krishna afferma esplicitamente che i nemici di Arjuna sono già stati "uccisi" dalla volontà divina. Arjuna, pertanto, è soltanto uno strumento di questa azione cosmica:

11.33
Pertanto, alzati e raggiungi l'onore! Conquista i tuoi nemici e goditi la prosperità del governo. Questi guerrieri sono già stati uccisi da Me, e tu sarai solo uno strumento della mia opera, o arciere esperto.

Questo insegnamento rappresenta una svolta radicale nella comprensione dell'azione e della libertà umana: l'uomo diventa consapevole che, pur avendo libertà di scelta a livello individuale, il risultato finale è determinato da una realtà superiore. Questa consapevolezza libera l'individuo dall'ansia per il futuro, dall'attaccamento ai risultati, e gli permette di vivere con maggiore serenità e coraggio.

La Gita afferma chiaramente che la liberazione dall'illusione di essere l'artefice assoluto porta alla pace interiore e alla realizzazione spirituale. L'ego viene ridimensionato, non più visto come il padrone, ma come un partecipante cosciente al gioco cosmico della vita.

Secondo Krishna, il vero obiettivo della vita umana non è ottenere risultati specifici o vittorie personali, ma realizzare la propria unione con il divino, superando ogni dualità e conflitto interiore. Per farlo, è necessario affidarsi completamente a Dio, liberandosi dalla paura e dalle preoccupazioni per il proprio destino.

In questo modo, l'essere umano scopre che la vera libertà consiste nella rinuncia all'illusione del controllo personale assoluto, aprendosi a una dimensione spirituale autentica e universale. La Bhagavad Gita insegna dunque che l'uomo diventa veramente libero solo quando riconosce e accetta di essere parte integrante di un disegno molto più grande, in cui la volontà divina rappresenta la vera forza motrice.

(17 aprile 2025)

Nutrire il Corpo, Difendere l'Anima dai Parassiti Energetici

Una riflessione sulla relazione tra alimentazione, stati interiori e igiene energetica

Disclaimer: Questo articolo attinge a una vasta gamma di tradizioni spirituali, filosofiche ed esoteriche — dall’Ayurveda all’Alchimia occidentale, dal Vedānta alla Teosofia — senza la pretesa di rappresentare fedelmente una singola scuola di pensiero. I concetti qui presentati sono frutto di una libera sintesi interpretativa e non costituiscono verità dogmatiche.


Sfumature di un concetto invisibile

Nelle correnti esoteriche d’Oriente e d’Occidente ricorre l’immagine di entità sottili – talvolta chiamate “larve astrali”, “forme‑pensiero” o “parassiti energetici” – che proliferano dove il campo vitale umano si fa turbolento o stagnante. La tradizione descrive questi agglomerati come sedimenti emotivi condensati, capaci di attingere forza dalle frequenze più basse emanate dall’essere umano: paura, collera, senso di mancanza, compulsione, euforia incontrollata. Non è materia di microscopia, bensì di una simbologia antica che invita a osservare le pieghe invisibili della vita interiore.

Il pensiero esoterico si fonda su un principio essenziale: ogni cosa vibra secondo una scala di “densità” che ingloba corporeità, emozioni e pensieri. Ciò che è leggero, vitale, armonico si colloca verso l’alto; ciò che è greve, stagnante o caotico scende verso il basso. L’alimentazione interviene su questa scala più di quanto appaia: nutre i tessuti, certo, ma incide anche sul ritmo fisiologico, sul tono psichico, sul flusso dell'energia vitale.

Ogni boccone è un atto magico”. Il cibo non fornisce soltanto calorie: veicola memorie, impronte ambientali, modalità di preparazione, intenzioni. Una pietanza coltivata senza pesticidi, raccolta con cura, cucinata in uno stato di quiete interiore, è più “luminosa” di un alimento industriale in cui risuonano fretta, chimica e sfruttamento. Consumare cibi ultraprocessati, e per di più in quantità eccessive o in uno stato emotivo agitato, aumenta la densità vibratoria dell’organismo e dà sostentamento ai parassiti energetici.

Il digiuno

Il digiuno è prima di tutto un atto di alleggerimento vibratorio: sottraendo per un intervallo di tempo il consueto flusso di materia al corpo, si sottrae anche la “materia prima” su cui le forme‑pensiero parassitarie amano sostare. L’assenza di cibo rompe la catena di stimoli‑risposta che ancora la psiche agli impulsi più densi: la frequenza complessiva sale, e con essa la naturale repellenza verso presenze capaci di proliferare solo in terreni appesantiti.

Il digiuno è una “forgia interna”. La forgia è il luogo dove il metallo viene sottoposto a calore intenso per essere purificato, ammorbidito e poi plasmato in una nuova forma. Allo stesso modo, il digiuno – nel suo significato esoterico e spirituale – è visto come un processo attraverso cui l'essere umano si sottopone a un “fuoco interiore”, non materiale ma psichico ed energetico.

Durante l’astensione dal cibo, l’organismo attraversa un periodo di disintossicazione, non solo fisica ma anche emozionale e mentale. Affiorano pensieri repressi, emozioni latenti, desideri non consapevoli. È come se la mancanza di stimolo esterno (il cibo) facesse emergere tutto ciò che normalmente resta sommerso nella quotidianità.

Durante il digiuno, le scorie emotive affiorano come bolle d’aria in superficie: paura della privazione, di non avere abbastanza (non solo cibo, ma anche affetto), antiche colpe, desiderio di consolazione. Quando si interrompe un’abitudine rassicurante, come mangiare, e ci si confronta con il vuoto, dietro a quel vuoto può emergere l’ansia di “non bastare”, di “non essere sostenuti”, di mancare qualcosa o a qualcuno, oppure semplicemente di non essere all’altezza. È un archetipo potente che il digiuno può far risalire alla coscienza. Per effetto di questa emersione, le larve astrali perdono la presa: il fuoco della consapevolezza, non più distratto dalla digestione, le consuma.

Naturalmente, tutto dipende da come scegliamo di stare con le emozioni che emergono: l’introspezione le scioglie, la fuga le lascia intatte.

Il digiuno, infine, è anche un rito: inizia con un’intenzione chiara, procede sotto la tutela di un respiro lento e pacifico, associato a meditazione, preghiere, camminate e altre attività consapevoli, e termina con un pasto di reintegrazione sobrio e benedetto. La cornice rituale funge da cerchio di protezione: ricorda che l’astinenza non è auto‑aggressione, bensì raffinazione dell’organismo e ampliamento del campo aurico. Così l’ascetismo alimentare non diventa terreno di nuove ossessioni – che sarebbero a loro volta nutrimento sottile per i parassiti – ma resta un gesto di libertà interiore, saldo e gentile al tempo stesso.

Trappole di appetito e stati d’animo

Il legame tra il gesto del nutrirsi e il piano sottile non si esaurisce nella materia ingerita: riguarda anche il "come" si mangia. Ogni episodio di alimentazione emotiva – la fame che placa l’ansia o riempie il vuoto‑noia – genera onde psichiche di bassa frequenza. Lo scenario tipico prevede un pensiero ricorrente (“serve zucchero subito”), tensione viscerale, soddisfazione effimera, calo di energia e senso di colpa. Il vortice alimenta un ecosistema perfetto per entità che prosperano in cicli ripetitivi. In quest'ottica, il parassita non è soltanto “qualcosa di esterno”, ma anche l’automazione interiore che si auto‑nutre di abitudini malsane.

Possiamo suddividere gli alimenti in categorie sottili. I cibi possono essere sattvici, tamasici e rajasici secondo la tradizione indiana:

Categoria simbolica Esempi culinari Effetto descritto
Satvica (leggera, armonica) Cereali integrali, verdure fresche di stagione, frutta matura, semi oleosi crudi Eleva la chiarezza mentale, facilita la meditazione
Rajasica (stimolante) Spezie piccanti, caffeina, cibi troppo salati Accende il dinamismo, ma se in eccesso induce agitazione
Tamasica (densa, stagnante) Carni conservate, fritti, alcol, alimenti raffinati Rallenta i processi sottili, predispone all’inerzia

Tale classificazione, letta con occhio contemporaneo, suggerisce che un’alimentazione predominante in cibi naturali, poco manipolati e assunti con sobria gratitudine mantiene il sistema vitale in una condizione di stabilità, sfavorevole agli ospiti parassitari.

Igiene energetica a tavola

  1. Ritmo consapevole
    Masticare lentamente, respirare prima del primo boccone, posare le posate a ogni morso: semplici gesti che spostano l’atto del mangiare dalla compulsione al rito. Il ritmo calmo eleva la frequenza del momento presente, interrompendo le correnti emotive su cui i parassiti fanno leva.

  2. Presenza emotiva
    Osservare le sensazioni che sorgono – desiderio, sazietà, nervosismo – senza giudizio, consente di disinnescare il circuito fame‑rilascio‑colpa. Lo sguardo lucido dissolve la nebbia vibratoria.

  3. Qualità dell’origine
    Privilegiare prodotti locali biologici o biodinamici, scegliere metodi di cottura leggeri, evitare ingredienti la cui provenienza è connessa a sfruttamento o crudeltà. L’etica imprime una firma energetica al piatto.

  4. Gratitudine e benedizione
    Molte tradizioni recitano un ringraziamento prima del pasto. Dirigere un pensiero di apprezzamento ristruttura la coerenza cardiaca e impregna l’alimento di un ordine informazionale che rende più difficile l’aggancio parassitario.

Il binomio “parassita‑cibo” include ingredienti immateriali: la digestione di esperienze, la trasformazione delle pulsioni, la salubrità dell’ambiente psichico. Contemplazione, respirazione profonda, esercizio fisico dolce, esposizione alla natura, arte e silenzio sono alimenti dell’anima; privarsene impoverisce le difese sottili ed espone l'anima alle larve, ai parassiti, ai demoni.

Conclusioni

La visione esoterica non pretende conferma empirica dalle scienze di laboratorio, pur dialogando talvolta con la psicologia e la psiconeuroendocrinoimmunologia, dove stress cronico e infiammazione sistemica riflettono – con linguaggio biochimico – ciò che l'esoterico interpreta come l'azione di parassiti.

Il legame tra parassiti energetici e cibo si muove sul crinale fra metafora e realtà sottile. La questione non si risolve nella sola liberazione da entità invisibili che si nutrono delle nostre energie ed emozioni più basse, ma esige un duplice impegno: erigere confini sottili che ci proteggano da tali presenze e, insieme, coltivare una vigilanza interiore capace di dissolvere le ombre psichiche prima che si addensino.

Una dieta equilibrata, assunta con misura, sobrietà e accompagnata da digiuni e da gesti di consapevolezza, diviene uno scudo naturale: nutre il corpo, rischiara la mente, e preserva l’intimo nucleo di energia da mendicanti invisibili in cerca di emozioni distruttive e pensieri negativi.

Il piatto quotidiano, allora, smette di essere un semplice carburante e si trasforma in un atto poetico di difesa e di celebrazione della vita.

(17 aprile 2025)

Praticare contemporaneamente più religioni: l’esempio di Gandhi

La pratica di più tradizioni spirituali può suscitare dubbi e perplessità, specialmente in contesti in cui religioni diverse tendono a escludersi a vicenda. Molti culti, infatti, enfatizzano l’idea di una verità esclusiva, lasciando intravedere il rischio di una dissonanza cognitiva per chi sente l’esigenza di affidarsi a pratiche provenienti da più fedi. Il Mahatma Gandhi ha fornito un esempio concreto di come tale conflitto interiore sia superabile con serietà e compassione: il suo ecumenismo spirituale ha mostrato che religioni diverse possono essere viste come vari sentieri verso un’unica meta.

In Gandhi, si riscontra la consuetudine di pregare e meditare attingendo alle più svariate fonti: Bhagavad Gita, Corano, Bibbia e altri testi sacri. La coesistenza di questi percorsi apparentemente disomogenei non costituiva un ostacolo, bensì un arricchimento. La pratica simultanea di più religioni non era per lui un problema interiore, poiché egli sosteneva che l’essenza della verità risiedesse in tutti i cammini spirituali, considerati espressioni molteplici di un unico principio divino. Questo atteggiamento “e… e…” si opponeva a qualsiasi forma di settarismo, invitando a superare la visione “o… o…” nella quale una verità esclude l’altra. Gandhi non credeva in una superiorità di una fede sull’altra, ma piuttosto in una complementarità delle tradizioni spirituali.

Al centro di tale prospettiva si colloca il concetto di Sarva Dharma Sama Bhava, espressione traducibile come “tutte le religioni sono uguali (o equivalenti)”. Ciò indica la convinzione che ogni fede racchiuda, pur con accenti diversi, un valore universale. In Gandhi, Sarva Dharma Sama Bhava andava oltre la mera tolleranza o il rispetto formale: diventava la certezza che la realtà divina possa essere contemplata e venerata in forme molteplici, senza che ciò susciti gelosie celesti o gerarchie morali. Ogni formula devozionale, ogni rito e ogni testo sacro venivano onorati come strumenti legittimi per vivere la spiritualità, sempre riconducendola a un comune denominatore di amore, verità e compassione.

La pratica simultanea di più religioni, nella visione gandhiana, si trasforma così in un’occasione di incontro e condivisione: l’essere umano non risulta frammentato da riti e preghiere di provenienze differenti, ma arricchito dalla complementarità delle varie tradizioni. Questo genere di percorso non richiede di rinunciare al nucleo profondo di una singola fede; piuttosto, implica una comprensione più ampia della verità, alla cui ricerca ci si può dedicare percorrendo strade diverse.

Nel ricordo di Gandhi, permane l’idea che nessun culto debba rivendicare il monopolio dell’assoluto e che la pluralità di tradizioni spirituali possa convivere senza generare attriti. Egli ha dimostrato con il proprio esempio come la sincerità del cuore e la rettitudine dell’agire siano parametri di giudizio più solidi di qualunque confine di appartenenza religiosa. L’armonia interconfessionale, ispirata al principio del Sarva Dharma Sama Bhava, incoraggia a intravedere l’unità nella diversità senza scadere in conflitti né interne contraddizioni. L’eredità gandhiana, in tal senso, rappresenta una testimonianza di come una prassi interreligiosa possa essere vissuta non solo in modo etico e coerente, ma anche intensamente sacro.

(15 aprile 2025)

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