Il concetto di Sé nel buddismo e di Anima nella filosofia occidentale
L'idea di un "Sé" o di un'"Anima" è centrale nelle riflessioni filosofiche e spirituali sia dell'Oriente che dell'Occidente. Nel Buddismo, il concetto di Anatta (Pali) o Anatman (Sanscrito), traducibile come "non-sé", sfida l'idea di un'entità permanente, mentre la filosofia occidentale ha spesso sostenuto l'esistenza di un'anima immortale e individuale.
Il Sé nel Buddismo
Secondo gli insegnamenti buddisti, ciò che percepiamo come "sé" è in realtà un insieme di fenomeni in continua evoluzione.
Il Budda disse: “Ho insegnato una cosa e una sola: la sofferenza e la fine della sofferenza”. I suoi insegnamenti sull'anātman sono improntati su questa linea. Nel "Anattalakkhaṇa Sutta" (secondo discorso pubblico del Budda dopo la sua illuminazione), egli affermò:
"Tutti i fenomeni sono privi di un sé; quando ciò viene compreso con saggezza, allora si abbandona la sofferenza."
All'epoca del Budda, la ricerca spirituale era in gran parte vista come la ricerca dell'identificazione e della liberazione del vero Sé di una persona. Tale entità era considerata la natura interiore permanente di una persona, la fonte della vera felicità e il “controllore interiore” autonomo delle azioni, degli elementi interiori e delle facoltà di una persona. Dovrebbe anche avere il pieno controllo di se stesso. Nel brahmanesimo, questo ātman era visto come un Sé universale identico a Brahman, mentre nel giainismo, ad esempio, era visto come il “principio-vita” individuale (jīva). Il Budda sosteneva che tutto ciò che è soggetto al cambiamento, tutto ciò che è coinvolto nella disarmonia del dolore mentale, tutto ciò che non è autonomo e totalmente controllabile dalla volontà propria o del proprietario, non può essere un vero Sé perfetto o ciò che in qualche modo gli appartiene. Inoltre, considerare qualsiasi cosa come tale significa porre le basi per molte sofferenze; infatti, ciò che si considera con affetto il proprio Sé permanente ed essenziale, o il suo possesso sicuro, in realtà cambia in modi indesiderati.
Sebbene le Upaniṣad (testi filosofici e spirituali dell'antica tradizione indiana che esplorano la natura della realtà ultima "Brahman", del sé "Ātman" e della liberazione spirituale "mokṣa") riconoscessero molte cose come non-Sé, ritenevano che si potesse trovare un vero e proprio Sé. Ritenevano che, una volta trovato e riconosciuto come identico a Brahman, la base di tutto, questo avrebbe portato alla liberazione. Nei Sutra buddisti, invece, tutto è visto come non-Sé, persino il Nirvana. Quando questo viene conosciuto, la liberazione - il Nirvana - viene raggiunta attraverso il totale non-attaccamento. Quindi sia le Upaniṣad che i Sutra buddisti vedono molte cose come non-Sé, ma i Sutra lo applicano a tutto.
L'insegnamento sui fenomeni come non-Sé non intende solo minare i concetti brahmanici o giainisti di Sé, ma anche concezioni molto più diffuse e sentimenti radicati di Io. Sentire che, per quanto si cambi nella vita dall'infanzia in poi, una parte essenziale rimane costante e immutata come il “vero io”, significa credere in un Sé permanente. Agire come se solo gli altri morissero e ignorare l'inevitabilità della propria morte significa agire come se si avesse un Sé permanente. Mettere in relazione i fenomeni mentali mutevoli con un Sé sostanziale che li “possiede” - “sono preoccupato ... felice ... arrabbiato” - significa avere un tale concetto di Sé. Costruire un'identità basata sul proprio aspetto corporeo o sulle proprie capacità, o sulle proprie sensibilità, idee e credenze, azioni o intelligenza, ecc., è considerarle parte di un “Io”.
Il Budda accettava molti usi convenzionali della parola “sé”, come “te stesso” e “me stesso”. Questi li considerava semplicemente dei modi convenienti per riferirsi a un particolare insieme di stati mentali e fisici. Ma all'interno di questo sé convenzionale ed empirico, egli insegnava che non si poteva trovare un Sé metafisico permanente, sostanziale e indipendente. Questo è ben spiegato da una delle prime monache, Vajirā: come la parola “carro” è usata per indicare un insieme di oggetti in relazione funzionale, ma non una parte speciale di un carro, così il termine convenzionale “un essere” è propriamente usato per riferirsi ai "pañca skandha" (cinque aggregati) in relazione tra loro. Nessuno di tali skandha è un “essere” o un “Sé”, ma questi sono semplicemente etichette convenzionali usate per indicare l'insieme dei skandha funzionanti.
I cinque skandha, o cinque cumuli o cinque aggregati, sono cinque aggregati psicofisici che, secondo la filosofia buddista, sono alla base dell'affermazione del sé. Essi sono:
- rupa-skandha - aggregato della forma
- vedana-skandha - aggregato delle sensazioni
- saṃjñā-skandha - aggregato di riconoscimento, etichette o idee (percezione, cognizione)
- saṃskāra-skandha - aggregato di formazioni volitive (desideri, volontà e tendenze)
- vijñāna-skandha - aggregato della coscienza
I cinque skandha sono essenzialmente un metodo per comprendere che ogni aspetto della nostra vita è un insieme di esperienze in continua evoluzione. Non esiste un aspetto veramente solido, permanente o unico. Tutto è in movimento. Tutto dipende da molteplici cause e condizioni.
L'insegnamento del non-Sé non nega la continuità del carattere nella vita e, in una certa misura, da una vita all'altra. Ma i tratti persistenti del carattere sono semplicemente dovuti al ripetersi di certi citta, o “atteggiamenti mentali”. Il citta nel suo complesso viene talvolta definito un “sé” (empirico), ma mentre questi tratti caratteriali possono essere duraturi, possono comunque cambiare e cambiano, e quindi sono impermanenti, e quindi “non-Sé”, insostanziali.
Una “persona” è un insieme di processi mentali e fisici in rapida evoluzione e interazione, con modelli caratteriali che si ripresentano nel tempo. Su questi processi si può esercitare un controllo solo parziale: quindi spesso cambiano in modi indesiderati, portando alla sofferenza. Essendo impermanenti (e dolorosi), non possono essere un Sé permanente.
Le diverse scuole buddiste hanno interpretato l'Anatta, cioè il non-Sé, in modi vari. Il Theravada sottolinea la pratica della meditazione e l'analisi dei fenomeni per realizzare l'assenza di un sé. Il Mahayana, invece, attraverso testi come i "Prajñāpāramitā Sutra" (è una raccolta di circa quaranta testi composti in India tra il 100 a.C. e il 600 d.C. circa), introduce il concetto di vacuità (śūnyatā), estendendo l'assenza di essenza intrinseca a tutti i fenomeni. Su questo tema, rimando i miei lettori ad un approfondimento su Nagarjuna, che ho già estesamente trattato in questo blog.
Vale comunque la pena di notare che una parte del buddismo contemporaneo, che potremmo definire "occidentalizzato" e "iper-semplificato", sembra ignorare del tutto questi concetti fondanti del pensiero buddista, aderendo più all'idea dell'Anima, come storicamente intesa in Occidente, che al non-Sé come insegnato dal Budda.
L'Anima nella filosofia Occidentale
In Occidente, l'idea di un'anima immortale ha radici profonde nella filosofia greca e nella tradizione giudaico-cristiana. Platone (428-348 a.C.) sosteneva che l'anima è eterna e preesiste al corpo. Nel dialogo "Fedone", discute l'immortalità dell'anima e la sua capacità di accedere al mondo delle idee pure.
Aristotele (384-322 a.C.), allievo di Platone, offre una visione diversa. Nel suo trattato "De Anima", definisce l'anima come la forma del corpo, il principio che dà vita e funzionalità all'organismo. Per Aristotele, l'anima non può esistere separatamente dal corpo, differenziandosi così dal dualismo platonico.
Con l'avvento del Cristianesimo, l'anima assume una dimensione morale e trascendente. Sant'Agostino (354-430) combina la filosofia platonica con la teologia cristiana, enfatizzando la natura immateriale e immortale dell'anima, destinata al giudizio divino. Nelle "Confessioni", esplora la relazione tra l'anima e Dio.
Nel Medioevo, San Tommaso d'Aquino (1225-1274) integra il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana. Nella "Summa Theologiae", argomenta che l'anima razionale è la forma sostanziale del corpo umano, immortale e capace di esistere indipendentemente dopo la morte.
In epoca moderna, René Descartes (1596-1650) propone il dualismo cartesiano, separando nettamente mente e corpo. Nel "Meditazioni Metafisiche", afferma: «Io penso, dunque sono». Per Descartes, l'anima (mente) è una sostanza distinta dal corpo fisico, capace di esistere indipendentemente.
Confronto tra le due prospettive
Il Buddismo e la filosofia occidentale offrono visioni contrastanti sulla natura del sé o dell'anima. Nel Buddismo, l'assenza di un sé permanente è fondamentale per liberarsi dalla sofferenza. L'attaccamento all'idea di un sé immutabile è visto come illusorio e fonte di dolore.
Al contrario, la filosofia occidentale tradizionale considera l'anima come essenza dell'identità personale, fondamentale per questioni etiche, morali e metafisiche. L'idea di un'anima immortale ha influenzato profondamente concetti come responsabilità morale, vita dopo la morte e salvezza.
Comprendere queste differenze arricchisce il dialogo interculturale e offre strumenti per riflettere sulla nostra identità, sul significato della vita e sul percorso verso la saggezza.
(2 ottobre 2024)
Navigare la dualità della vita
Mentre la Via di Mezzo di Nagarjuna ci offre l’opportunità per camminare tra lo spazio indefinito che si trova tra l’esistenza e la non esistenza, rigettando la fondatezza di entrambe, e al contempo non potendola negare, in una sorta di uscita dalla dualità, il mondo duale in cui siamo immersi va avanti secondo le regole dello scontro tra i poli della dualità. Rifuggire questa realtà significa rifiutare l’esperienza della vita.
Detto in altri termini, la nostra presenza in questo mondo, qualunque ne sia la ragione e missione, ha bisogno di accettare le regole della materialità, dell'apparente separazione duale e dello scontro tra entità interdipendenti se vuole trovarsi nella condizione di poter agire, apprendere e seguire il proprio daimon senza essere annientata troppo presto.
In parole più grezze e brutali, la guerra, cioè il suddetto scontro tra entità interdipendenti, è uno dei fondamenti dell’esistenza umana, sia a livello storico che personale. Sia ben inteso, non è l’unico pilastro esistenziale, altrimenti come specie ci saremmo già estinti pochi attimi dopo la nostra comparsa in questo mondo. La guerra è un principio di base, radicato nella dualità, che non può essere negato, a meno che non si voglia negare la vita stessa su questo piano materiale. Nel qual caso, tanto sarebbe valso non incarnarsi o reincarnarsi, ammesso che di scelta si sia trattato.
A ben vedere, però, anche negli altri e alti piani dell’esistenza è guerra. Se volessimo fare un riferimento alla tradizione ebraica, basterebbe notare che l'arcangelo Mika'el è a guida delle schiere celesti in battaglia. Nella teologia cristiana, gli angeli sono anche guerrieri, nella misura in cui ciò fa parte del loro ruolo di proteggere e servire Dio e i suoi disegni: arcangeli, cherubini, angeli del Signore e schiere celesti sono tutte forze guerriere. Non voglio dilungarmi in esempi di altre tradizioni culturali, che comunque abbondano. In generale, il concetto di battaglia tra il bene e il male, non solo spirituale ma anche armata, è spesso rappresentato da forze soprannaturali o divine pronte a proteggere l’ordine cosmico. I ruoli di “bene” e di “male” possono anche essere più o meno legittimamente invertiti, nel senso che possiamo anche considerarli come etichette arbitrarie di due fazioni in lotta, però la guerra è necessaria, appunto, per l’ordine cosmico. Ciò è sorprendente, ma al contempo dà ragione di essere alle parti in lotta: l’esistenza di una parte in guerra dipende dall’esistenza del suo avversario. Ne segue che la guerra non potrà mai essere vinta o persa in senso definitivo, almeno fino alla fine dei tempi. Cessata la guerra, cesserà anche il cosmo.
Prospettive simili si trovano anche Bhagavadgītā, in cui Krishna (incarnazione del dio Vishnu, colui che preserva l'ordine cosmico) spiega ad Arjuna (il più valoroso tra i guerrieri Pandava) che la sua partecipazione alla guerra è un dovere divino (dharma). Arjuna si trova in un dilemma morale prima della grande battaglia di Kurukshetra, poiché deve affrontare i suoi stessi familiari, amici e maestri sul campo di battaglia. Krishna, però, gli insegna che il suo dovere (dharma) come kṣatriya, ovvero come guerriero, è combattere per la giustizia, senza attaccamento ai risultati delle sue azioni. Però, gli spiega anche che:
«Chi pensa che l'entità vivente sia l'uccisore o che venga uccisa non capisce. Chi è in conoscenza sa che il sé non uccide e non viene ucciso. Per l'anima non c'è mai nascita né morte. Né, essendo stata una volta, cessa di essere. È non nata, eterna, sempre esistente, imperitura e primordiale. Non viene uccisa quando il corpo viene ucciso»
(Bhagavadgītā 2:19-20).
Krishna sottolinea anche che i concetti di bene e male, piacere e dolore sono dualità che l'uomo deve trascendere:
«O figlio di Kunti, il contatto tra i sensi e gli oggetti sensoriali dà luogo a percezioni fugaci di felicità e angoscia. Queste non sono permanenti e vanno e vengono come le stagioni invernali ed estive. O discendente di Bharat, bisogna imparare a tollerarle senza essere disturbati. O Arjuna, il più nobile tra gli uomini, la persona che non è influenzata dalla felicità e dall'angoscia e rimane stabile in entrambe, diventa idonea alla liberazione»
(Bhagavadgītā, 14-15).
La liberazione, o mokṣa, a cui Krishna fa riferimento, è la liberazione dal ciclo di nascita e morte (saṃsāra). Secondo questa prospettiva, ciascuno di noi deve entrare in guerra, ma accettando con equanimità tutto ciò che accade, senza desiderio né avversione.
Tornando alle nostre guerre terrestri, meno mitologiche, meno romanzate, meno “da interpretare spiritualmente” e purtroppo ben più deplorevoli, ripugnanti e pericolose per l’intero ecosistema, sia ben chiaro che non sto facendo un elogio alla violenza, né legittimando le barbarie attuali o del passato. Ne sto soltanto osservando l’ineluttabilità.
Basterebbe notare che per vivere occorre mangiare, cioè uccidere, e ciò vale anche per gli erbivori e per le creature più miti e innocue. La vita stessa è violenta per tutti i limiti, le angosce e le stringenti necessità che ci impone, e non c’è creatura che non conosca o che non abbia conosciuto una sofferenza atroce. I propositi di non-violenza, cari a tradizioni come il buddismo e ancor di più al jainismo, nascono proprio da questa consapevolezza, e mi auguro che nei nostri cuori essi siano sempre benvenuti.
Purtroppo, però, per come è fatto il mondo e per tutti i vincoli e le necessità che ci impone, la non-violenza rimane un ideale non raggiungibile. Prendiamo un’eccezione storica come Gandhi, che è problematica da più punti di vista:
«Gandhi aveva paura di presenze invisibili e del buio, perché il daimon che teneva in mano il suo destino sapeva delle cariche coi manganelli della polizia indiana e dei tentativi di linciaggio in Sudafrica, delle lunghe carcerazioni in celle buie, e sapeva che la morte sarebbe stata la sua costante compagna di strada. Nella sceneggiatura di Gandhi era scritto il suo assassinio»
(James Hillman, Il codice dell’anima, p. 44, ISBN 9788845923630).
La non-violenza di Gandhi non si è forse tradotta in violenza verso se stesso, e violenza subita da coloro che lo seguivano, con spargimenti di sangue e morti? La dedizione totale di Gandhi alla causa della liberazione dell'India ha inevitabilmente avuto ripercussioni sulle persone a lui più vicine, in particolare sulla sua famiglia. Ci si potrebbe dunque chiedere se il suo impegno pubblico, che lo portò a sacrificare molti aspetti essenziali della sua vita privata, possa essere considerato una forma di sofferenza (violenza?) imposta ai suoi cari, soprattutto al figlio Harilal, il quale ebbe una vita tormentata, segnata dall'alcolismo. La realtà è che le situazioni umane sono sempre più intricate di quanto appaia a prima vista, e le conseguenze delle scelte individuali possono essere ambivalenti e contraddittorie.
«Comunque sia, sono passati più di ventidue secoli dalla morte del Tathagata. Le cinque impurità hanno prosperato e ormai da molti anni, in tutte le situazioni, le buone azioni sono diventate estremamente rare. Siamo in un’epoca in cui, se anche una persona fa del bene, compiendo una buona azione ne accumula dieci cattive; in definitiva, facendo un piccolo bene commette un gran male, eppure in cuor suo si vanta di aver praticato un “gran bene”»
(Nichiren Daishonin, Gosho “La recitazione dei capitoli Espedienti e Durata della vita").
Qui Nichiren descrive la complessità morale della nostra epoca: anche se cerchiamo di fare il bene, a causa delle circostanze della vita, dei vincoli, delle necessità, e della corruzione che pervade il mondo, i nostri buoni propositi sono contaminati dal male. Nonostante le buone intenzioni, finiamo inevitabilmente per compiere azioni che sono in qualche modo negative. I vincoli sociali e materiali, e i limiti della nostra stessa natura, rendono impossibile il compimento di un bene puro, non-violenza compresa.
Essendo strutturato in questo modo contraddittorio e caotico il nostro piano materiale, la nostra mente, per evitare di essere sovraccaricata da tale enorme e ingestibile complessità, adotta spesso un pensiero “euristico”, ovvero utilizza scorciatoie mentali per prendere decisioni rapide. Questi processi semplificati, però, ci portano a vedere il mondo attraverso schemi rigidi e polarizzati. Ad esempio, tendiamo a categorizzare le persone e le situazioni in termini di opposti: buono/cattivo, forte/debole, amico/nemico. Questi costrutti, pur essendo in parte funzionali alla nostra sopravvivenza in molte situazioni, sono illusori, riduttivi e fuorvianti, e come cattivi amici ci accompagnano in una lotta continua per primeggiare, perché sentiamo, più o meno inconsciamente, di essere sempre in grave pericolo.
Le anime più evolute intenderanno tale lotta per primeggiare soprattutto a livello interiore, e cercheranno di ripulire la propria anima e il proprio intelletto da tutta la sporcizia spirituale che questo mondo ci getta addosso. Tali anime cercheranno la liberazione dalla paura, dal desiderio e dall’avversione, e faranno il possibile per non lasciarsi domare dagli inganni e della vanagloria. Non si esalteranno nel successo né si avviliranno nei fallimenti, e manterranno un cuore compassionevole e grato.
La maggior parte di noi, però, intenderà la lotta per primeggiare non tanto come l’impegno a domare e a far evolvere la propria mente instabile e sprovveduta, ma come la distruzione del proprio prossimo, fin dove le regole sociali, legali ed economiche lo consentiranno, a meno di non sfociare nella criminalità o nella guerra armata nuda e cruda. Sarà una gara al massacro, in cui si ritroveranno coinvolte anche le anime più pie ed equilibrate, che saranno annientante se non eserciteranno una qualche forma di “potere” da un alto, e se dall’altro non accetteranno il “dominio” del più forte, nel senso di aggressivo e violento. Questa si chiama “guerra”. Ed è guerra dal concepimento, pur per quanto esso sia auspicabilmente il frutto di uno dei massimi atti di amore, fino alla morte. E anche oltre.
Fin qui abbiamo discusso della guerra come connaturata alla vita e del rifiuto della guerra come rifiuto della vita. Può essere molto difficile da accettare, se esplicitato in questi termini così duri. Ciò sembrerebbe in netto contrasto con l'insegnamento di Gesù, che predicava l'amore per i nemici:
«Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi maltrattano e vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro, che è nei cieli, poiché egli fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i malvagi, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Perché, se amate coloro che vi amano, che premio ne avrete? Non fanno altrettanto anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno altrettanto anche i pubblicani? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro, che è nei cieli»
(Matteo 5, 44-48).
In realtà, la tradizione cristiana, in particolare con il Padre della Chiesa Sant'Agostino e il Dottore della Chiesa San Tommaso d'Aquino, ha considerato la guerra come moralmente giustificata in determinate circostanze, considerandola come una “concessione alle imperfezioni del mondo”, cioè un male necessario. In un articolo del 30 aprile 2018 di Disputationes Theologicae (piattaforma accademica e scientifica di stampo cattolico tradizionalista), leggiamo:
«[...] E qui emerge un altro aspetto troppo spesso dimenticato, ovvero il dovere di amare il prossimo fino al punto di dichiarargli guerra. Per il suo bene. Ovvero togliergli la libertà di fare il male impunemente e soprattutto sottrargli quella tranquilla felicità di malfattore, che rafforza la spavalderia degli impuniti e la loro mala volontà, può essere un gesto d’amore. [...]».
Nell'ebraismo esiste il concetto di milkhemet mitzvah (“guerra comandata”). Nell'Islam, la Jihad si riferisce a uno “sforzo” o “lotta” sulla via di Dio e può riguardare sia una lotta spirituale interna (il “grande jihad”) sia una lotta esterna, che può includere il combattimento armato (il “piccolo jihad”). Anche l'induismo riconosce la necessità di combattere in certe situazioni. Buddisti e jainisti rifiutano la guerra come legittima in qualsiasi circostanza, almeno in teoria.
Purtroppo abbiamo dei controesempi storici nel caso dei buddisti. Ad esempio, in Giappone, durante il periodo medievale, alcuni monasteri buddisti (soprattutto quelli della scuola Tendai e della setta buddista guerriera Sohei) avevano veri e propri eserciti monastici. I monaci guerrieri (sohei) divennero noti per il loro coinvolgimento in conflitti armati. Questi monaci partecipavano attivamente a scontri con altre fazioni buddiste o signori feudali. Fu anche per queste ragioni che Nichiren Daishonin, precedentemente citato, sostenne che il Giappone stava affrontando una crisi spirituale e politica a causa dell'abbandono degli insegnamenti buddisti corretti, ma non dilunghiamoci oltre.
La guerra non può essere evitata e la pratica della non-violenza non impedisce agli altri di farci violenza. Lo stesso Gandhi affermò che, sebbene preferisse la non-violenza come principio assoluto, tra la codardia e la violenza, la violenza è da preferirsi:
[...] Credo che nel caso che l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza. [...] E sempre per questo stesso principio mi sono dichiarato favorevole all’addestramento militare di coloro che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il suo onore piuttosto che, in modo codardo, divenisse o rimanesse testimone impotente del proprio disonore. [...]
[...] È difficile che un topo perdoni una gatta mentre viene fatto a pezzi da questa. [...]
(Estratti di “Young India”, rivista settimanale fondata e gestita da Gandhi, 11 agosto 1920. L'articolo completo si intitola "The Doctrine of the Sword", suggerisco di leggerlo nella sua interezza per contestualizzare ed evitare fraintedimenti)
Però, se riconosciamo la natura illusoria del nostro piano materiale, e l’inevitabile fine di ogni cosa che abbia inizio, cosa ne sarà delle nostre guerre, delle nostre conquiste, delle nostre memorie? I nostri corpi, un tempo belli, giovani e capaci di attirare l’attenzione, prima o poi non saranno altro che putridume ripugnante, un covo di malattie, a cui seguiranno morte e decomposizione. Siamo costretti a fare la guerra, ma a quale scopo?
In cosa risiede il senso della nostra esistenza, se non nell’essere parte di una comunità, di qualcosa di più grande del nostro ego?
Se non fossimo protetti dall’altro principio che nella dualità è opposto alla guerra, cioè l’amore, le nostre esistenze semplicemente non sarebbero possibili.
(25 settembre 2024)
In guerra
Spettri
(September 16, 2024, go to my art gallery)