You are here

Appunti di Psicologia della Comunicazione (sintesi)

Appunti di Psicologia della Comunicazione (sintesi)
(download PDF)

a cura di Francesco Galgani
www.informatica-libera.net

«La TV è un modo malsano di riempire un vuoto. Facebook e i telefonini anche.»
(Francesco Galgani)

«Non c’è molta differenza tra il cellulare e il “braccialetto elettronico” indossato dai condannati in semilibertà: in quest’ultimo caso il controllo della polizia è in tempo reale; nel caso del cellulare invece il controllo, sempre possibile, è in differita: ci vuole un po’ più di lavoro, ma il risultato è lo stesso (i dati vengono conservati dalle società per anni).»
(Franco Lever, Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale, Università Pontificia Salesiana)
 

Abstract

Questo mio elaborato mi ha accompagnato nella preparazione di un esame di Psicologia della Comunicazione: desidero condividerlo, nella speranza che sia utile anche ad altri. Ovviamente non posso escludere che contenga errori. La scelta degli argomenti e del livello di approfondimento è stata motivata perlopiù da mie esigenze di studio: le note bibliografiche potranno servire per ulteriori approfondimenti.
Parte dei testi sono liberamente tratti da quanto ho riportato nelle note bibliografiche. Tutti i testi tratti e/o rielaborati da http://www.lacomunicazione.it, che ha costituito il mio principale punto di partenza per la preparazione di questa sintesi, hanno licenza “Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo”, pertanto la presente pubblicazione è da considerarsi con la medesima licenza.
Francesco Galgani

Indice

1 Alcune teorie della comunicazione

1.1 TEORIA DELLA COLTIVAZIONE

Il suo presupposto di base è che, tra i mass media moderni, la televisione ha acquistato un tale ruolo centrale da dominarne l’universo simbolico, sostituendo l’esperienza personale e le altre forme di conoscenza del mondo con i suoi messaggi drammaticamente distorti sulla realtà. Gerbner descrive la televisione come il braccio culturale dell’ordine industriale stabilito e la sua funzione è innanzi tutto quella di "mantenere, stabilizzare e rafforzare le idee e i comportamenti piuttosto che cambiarli". Questo concetto è vicino alle posizioni della Scuola di Francoforte e dell’analisi marxista. Possiamo formulare l’ipotesi centrale di questa teoria come segue: la visione assidua della televisione porta gradualmente all’adozione di idee sulla natura del mondo sociale che si conformano alla visione stereotipata, distorta e parziale rappresentata nei programmi televisivi. In altre parole, l’azione di questo processo di coltivazione è graduale e cumulativa e implica, prima di tutto, l’apprendimento e successivamente la costruzione di una visione della realtà sociale basata su proprie esperienze personali di vita e razza, genere, status sociale e economico, ecc., e sull’appartenenza a un certo gruppo di riferimento. Viene anche preso in considerazione il processo di interazione che si instaura tra l’audience e i messaggi mediali. Secondo questa teoria, i mass media non sono né finestre né semplici immagini del mondo, ma una forma del mondo stesso. La televisione costruisce un ambiente simbolico, coerente e totalizzante, che a sua volta fornisce norme di comportamento e idee su un’ampia varietà di situazioni di vita quotidiana.
Per approfondimenti: [1]

1.2 TEORIA DELLA GRATIFICAZIONE

Questa teoria è particolarmente influenzata dagli studi sull’apprendimento del comportamentismo. Secondo la teoria della gratificazione ci sono motivazioni ben precise per cui gli spettatori sono “influenzati” e “particolarmente interessati a lasciarsi influenzare, condizionare e guidare” dalla comunicazione di massa. Secondo questa teoria, le “gratificazioni” sono i rinforzi, le ricompense che spingono ad entrare in relazione con il messaggio comunicativo. Queste gratificazioni-ricompense sono:
  • evadere dalla realtà;
  • cercare modelli di riferimento;
  • avere un argomento di cui parlare;
  • condividere un atto sociale, un modo di leggere la realtà;
  • evitare la solitudine (riempire un vuoto interiore, una mancanza di altre persone o un’assenza di dialogo/incontro con le persone vicine?);
  • trovare soddisfazione in atti illeciti (es. violenza sessuale);
  • provare forti emozioni identificandosi con gli attori;
  • agire relazioni “parasociali” (es. rapporto personale con Lady Diana)
Per approfondimenti: [2]

1.3 TEORIA DELL’AGENDA SETTING

La teoria dell’agenda setting, avanzata nel 1972 da Maxwell McCombs e Donald Shaw, sostiene che i mass media predispongono per il pubblico un certo ‘ordine del giorno’ degli argomenti cui prestare attenzione. A lungo gli studiosi hanno dibattuto su quanto i media possano comunicare alle persone cosa è importante e cosa deve essere preso in considerazione. Già nel 1922 Walter Lippmann, nell’ormai famoso Public Opinion, sottolineava come il pubblico dei media di fatto non si trovi dinanzi agli eventi reali, ma a pseudo-eventi, in pratica "alle immagini che ci facciamo nella nostra mente". Sin dalla selezione e rappresentazione quotidiana delle notizie, i media modellano la realtà sociale. Essi sono in grado di strutturare i nostri pensieri e di portarci a un mutamento cognitivo. Ordinano e organizzano il mondo per noi, inducendoci a prestare attenzione a certi eventi piuttosto che ad altri. Possono anche non riuscire a dirci cosa o come pensare, ma riescono sicuramente a dirci intorno a quali temi pensare qualcosa. Questa è la funzione di agenda setting svolta dai media, in particolare da quelli informativi.
Possiamo fare distinzione fra tre diversi tipi di ‘agenda’. Concentrandosi su certe questioni o eventi, i media indicano al pubblico ciò che vale la pena di prendere in considerazione. Questa è la cosiddetta agenda dei media. Ci sono poi le questioni e gli eventi che interessano il pubblico, e questa è l’agenda del pubblico. Infine anche i dirigenti politici, interessati tanto ai media quanto al pubblico, hanno una loro agenda in base alla quale elaborano e discutono le leggi che riguardano il Paese (agenda politica). Secondo i sostenitori della teoria dell’agenda setting, questi tre tipi di agenda interagiscono reciprocamente seguendo un processo lineare a tre fasi:
1) riportando certi eventi piuttosto che altri, i media stabiliscono la loro agenda;
2) quest’agenda si trova a interagire con quella del pubblico che così tende a dare importanza alle stesse questioni messe in primo piano dai media;
3) i dirigenti politici, dal canto loro, affrontano e discutono le questioni che sono di maggiore interesse per il pubblico.
Se è vero che i media sono in grado di condizionare fortemente l’agenda del pubblico, è anche possibile il contrario. Il potere dei media non è assoluto, ma dipende da diversi fattori: la credibilità che i media sono riusciti a crearsi, il grado in cui gli individui di volta in volta condividono i valori offerti dai media o la loro necessità di una guida. Infatti non tutti i componenti del pubblico sono ugualmente condizionati dall’agenda dei media. La ricerca ha dimostrato che le persone più portate a lasciarsi influenzare dai media sono quelle che hanno un maggiore bisogno di orientamento.
La questione che inevitabilmente emerge a questo punto è la seguente: chi è veramente in grado di condizionare l’agenda dei media? Sembrerebbe che i media subiscano una certa pressione da fonti sia interne che esterne. Dall’interno i media sono spesso condizionati dalle decisioni editoriali e amministrative dei proprietari, da certe esigenze di programmazione o di spazio e tempo. Esternamente i media sono sottoposti al controllo delle autorità pubbliche, dell’opinione pubblica in generale, degli sponsor e così via.
Negli ultimi anni, anche Shaw e McCombs hanno ammesso che i media hanno il potere di influenzare il modo in cui pensiamo, soprattutto attraverso il processo di priming e framing. Nel primo caso, si tratta di quel "processo psicologico nel quale l’enfasi attribuita dai media è in grado non solo di aumentare l’importanza di una data questione, ma anche di ‘innescare’ nel pubblico il ricordo delle informazioni precedentemente acquisite su quella questione"; poiché tutti i membri del pubblico, e non solo quelli che hanno più bisogno di orientamento, sono soggetti a questo processo, esso si rivela particolarmente dinamico ed efficace. Con il processo di framing (inquadramento, focalizzazione), invece, alcuni eventi vengono messi in primo piano, mentre altri passano inosservati. Una simile selezione provoca diversi tipi di reazione nel pubblico. Quando i giornalisti riportano una notizia, lo fanno presentandola come una storia caratterizzata da una certa ‘cornice’ o tema; all’interno di questa cornice sono poi collocati il contesto, l’atmosfera, il tono e i contenuti della notizia. Rispetto alla relazione tra i media e gli organismi di pressione esterni, possiamo distinguere quattro diversi rapporti di forza:
1) quando sia gli organismi esterni che i media godono dello stesso potere, può verificarsi una integrazione di forze, se le due parti sono d’accordo, o un vero e proprio conflitto se invece sono in disaccordo;
2) quando gli organismi esterni sono forti e i media deboli, i primi faranno di tutto per cooptare i secondi e piegarli ai loro fini;
3) quando i media sono forti e gli organismi esterni deboli, saranno i primi a stabilire l’agenda;
4) quando, infine, sia i media che gli organismi di pressione esterni sono deboli, l’agenda verrà stabilita dagli eventi stessi piuttosto che dagli uni o dagli altri.
Per approfondimenti: [3]

1.4 TEORIA DEGLI SCHEMI

Il termine script si riferisce al copione o anche alla struttura narrativa di base delle storie. Almeno nella cultura occidentale, tutte le storie seguono uno script narrativo che viene appreso sin dalla più tenera età quando i bambini le ascoltano dai genitori. Tutte le storie sono composte di episodi, ognuno dei quali contiene un’esposizione, una complicazione e una risoluzione. In altre parole, prima vengono introdotti i personaggi e l’ambientazione (esposizione), poi insorgono dei problemi o degli ostacoli (complicazione) che vengono alla fine risolti (risoluzione). Tutte le favole per bambini cominciano con il famoso "C’era una volta...". Le storie degli adulti seguono invece uno schema un po’ più complesso ma con elementi sempre ricorrenti. Per esempio, un problema può essere introdotto prima ancora che l’esposizione iniziale sia completata, o ancora ci possono essere due sotto-episodi nella risoluzione di un episodio più ampio. Anche la fiction televisiva e i romanzi si basano su uno script narrativo preciso che aiuta nella comprensione della vicenda narrata, come pure i programmi per bambini e le sitcom. Queste ultime in particolare presentano uno script narrativo a volte alquanto complicato con due sotto-episodi intrecciati, ognuno dei quali ha una propria struttura. Le nostre capacità di elaborazione dell’informazione vengono certamente accresciute dall’uso degli schemi. Meadowcroft e Reevers (1989) hanno rilevato che i bambini già a sette anni hanno capacità di schematizzazione ben sviluppate e che tali capacità portano a una migliore memoria del contenuto della storia centrale, a una riduzione dello sforzo di elaborazione e a una maggiore flessibilità nelle strategie di attenzione-allocazione. I serial televisivi e le soap opera solitamente mantengono l’attenzione del loro pubblico troncando il racconto, lasciandone così sospesa la conclusione. Poiché abbiamo in mente un nostro script narrativo, questo ci fa provare un senso di incompletezza che ci porta a tornare a vedere la puntata successiva il giorno o la settimana dopo per trovare la risoluzione. Questa è stata una strategia vincente nella storia del prime time televisivo. Per esempio, nei primi anni Ottanta gli spettatori di Dallas furono lasciati ad aspettare un’intera stagione prima di scoprire "chi ha sparato a J.R.?". Anche la pubblicità televisiva ricorre spesso allo script narrativo. Per esempio, un giovane è pronto per uscire con una ragazza (esposizione) ma, ahimè, scopre "un anello di sporco attorno al collo della sua camicia" (complicazione). Ed ecco che la sua mamma e il suo incredibile detersivo vengono in suo aiuto lavandogli la camicia in tempo per l’appuntamento (risoluzione). La nostra familiarità con certe strutture narrative di base ci fa capire anche i messaggi commerciali di pochi secondi, e questo è un notevole vantaggio per i pubblicitari.
Per approfondimenti: [1]

1.5 TEORIA DELLA LIMITATA CAPACITÀ DI ELABORAZIONE

Questa teoria, che studia il rapporto tra il messaggio televisivo e il soggetto, si ispira ad un approccio di tipo cognitivo. Secondo questa teoria l’individuo non è percepito come un soggetto razionale, comparabile con un computer capace di elaborare tutte le informazioni disponibili sul proprio palcoscenico, ma sceglie le informazioni che sembrano essere più pertinenti, più interessanti. Secondo questa teoria l’individuo è un elaboratore di informazioni con una capacità di elaborazione limitata, pertanto ha bisogno di ricorrere a semplificazioni.
Secondo la teoria della capacità di elaborazione limitata, le persone prendono in considerazione soltanto alcuni elementi della comunicazione, quelli che per noi sono più significativi. Ad esempio una donna incinta presterà particolare attenzione alle informazioni per neonati.
Esistono delle frasi che non a caso fanno intendere cose che sembrano utili per le nostre scelte e che guidano il nostro modo di elaborare le informazioni. Basta soffermarsi su alcuni spot pubblicitari, su alcuni messaggi promozionali, per trovare dei piccoli espedienti che sembrano condire alcune frasi proprio perché si sa che vi è una capacità limitata, e anche uno sforzo limitato, nel raccogliere le informazioni. Sono quei condimenti di alcune frasi, di alcune parole, che arricchiscono di significato una frase e quindi il significato simbolico che un particolare prodotto porta con sé in un messaggio pubblicitario. Ad es.: shampoo “clinicamente testato” (?!), pollo “tenero” alla griglia, torta salata alle zucchine “della nonna”, ecc.
Per approfondimenti: [4]

1.6 LA TEORIA DELLA DISSONANZA COGNITIVA DI FESTINGER

Due o più cognizioni che sono in contraddizione fra loro danno luogo a uno stato di disagio interno alla persona conosciuto come dissonanza cognitiva. Ad esempio: "Non sopporto le persone disoneste" e "A volte mi comporto in maniera disonesta" sono due elementi psicologicamente incompatibili (‘dissonanti’) che creano uno stato interiore negativo. La dissonanza cognitiva, essendo all’origine di un cambiamento di atteggiamento per diminuirne o eliminarne l’incompatibilità, sembra includere una componente motivazionale, una condizione fisiologica di tensione o attivazione (simile a quella che si prova nello stress) e una sensazione di spiacevolezza soggettiva della situazione. La dissonanza può coinvolgere aspetti molto o poco rilevanti. Una persona che esprime un posizione morale in forte contrasto con l’aborto proverà un disagio psicologico molto maggiore se deve fare scelte in questa area, rispetto a quello che proverà se, essendo a favore della dieta vegetariana, sceglie di mangiare a una cena tra amici un po’ di carne. A provocare il disagio può essere un solo aspetto oppure più di un aspetto. Una persona che si dichiara a favore del rispetto della natura sentirà un disagio maggiore o minore a seconda del numero di volte in cui viola questa sua scelta. Per questo si dice che la ‘grandezza’ del disagio dipende dall’importanza e dal numero degli elementi che si trovano in contraddizione. La ricerca psicologica si è dedicata soprattutto agli effetti o alle conseguenze di questa condizione. Festinger (1957) è riconosciuto come il pioniere degli studi sull’argomento.

1.6.1 Gli effetti della dissonanza cognitiva

Festinger ha individuato tre modalità che le persone mettono in atto per ridurre la condizione di incongruità psicologica:
a) cambiare uno degli elementi per renderlo più coerente con l’altro: ad esempio, se una persona scopre una dissonanza tra il suo attaccamento alla vita e un uso troppo disinvolto di alcolici o di sostanze potenzialmente cancerogene, assumerà un comportamento più coerente con il suo desiderio di vivere;
b) accrescere le ragioni che rendono il comportamento accettabile nonostante qualche incoerenza: ad esempio, di fronte alle ragioni che l’eccesso di alcool o di fumo danneggia parti dell’organismo, l’interessato sottolineerà che molti che sono inclini a tali abitudini non solo non vanno incontro a disagi fisici, ma hanno anche un vita longeva;
c) ridurre il livello di dissonanza: ad esempio, il diabetico a cui piacciono molto i cibi dolci potrebbe nutrirsi di questi cibi pensando a quanto sarebbe insopportabile la sua vita se dovesse rinunciare a questo piacere: "meglio una vita breve e piacevole che una vita lunga piena di rinunce".
Festinger ha avuto anche il grande merito di aver promosso ulteriori indagini al fine di determinare le situazioni ordinarie entro le quali si sviluppano i processi che riducono la condizione di incongruità cognitiva.
– Situazione 1: soggetti forzati a compiere azioni incompatibili con i loro atteggiamenti con l’uso di ricompense (compiacenza indotta o forzata). In un esperimento, Festinger e Carlsmith (1959), dopo aver fatto eseguire ai soggetti un compito molto noioso, chiedevano loro di dire ad altri, che stavano per eseguire lo stesso compito, che esso era piacevole, interessante e divertente (dissonanza cognitiva). Per dare l’informazione falsa, a un gruppo veniva data una somma di denaro irrisoria, a un altro una somma consistente. I risultati furono che il primo gruppo fornì valutazioni più elevate del piacere provato a eseguire il compito, rispetto al secondo. Apparve evidente che il cambiamento di atteggiamento dei soggetti era stato inversamente proporzionale alla consistenza della ricompensa ricevuta. Ulteriori studi hanno fornito indicazioni più precise sulle condizioni entro le quali può verificarsi il cambiamento di un atteggiamento: se il comportamento contrario da effettuare è percepito come libero, se si ritiene che l’atteggiamento precedente porterà a conseguenze negative, se si pensa che il comportamento non produrrà conseguenze negative, se il soggetto percepisce che il comportamento diverso non è contrario al concetto di sé.
– Situazione 2: livello di sofferenza dei soggetti per un particolare comportamento che è contrario ai propri atteggiamenti (giustificazione dello sforzo). Quando a dei soggetti è richiesto di svolgere un compito, la grandezza del cambiamento del loro atteggiamento dipende dallo sforzo e dall’impegno che il compito richiede. Più un cambiamento costa, minore è la probabilità che si realizzi.
– Situazione 3: soggetti ai quali è impedito di compiere un’attività desiderata (giustificazione insufficiente). Prendiamo il caso in cui a dei giovani viene proibito da parte dei genitori di partecipare a un concerto di musica rock. Evidentemente i genitori non si comportano tutti nello stesso modo: alcuni minacciano seriamente i figli, altri invece si limitano a sottolineare il pericolo della situazione. I giovani si trovano quindi in uno stato di dissonanza cognitiva, poiché manifestano un grande desiderio di partecipare ma il comportamento che potrebbe soddisfarlo è ostacolato, e, per di più, i motivi addotti non sembrano sufficienti a giustificare la scelta imposta loro. Aronson e Carlsmith (1963) hanno evidenziato che i soggetti sottoposti a una grave minaccia tendono a ridurre la valutazione di quanto essi desiderano in misura minore rispetto a coloro che ricevono solo una leggera ammonizione.
– Situazione 4: soggetti in dissonanza cognitiva con decisioni prese (dissonanza post-decisionale). Nel momento in cui una persona prende una decisione, quasi mai fornisce ragioni totalmente favorevoli alla scelta fatta e ragioni del tutto sfavorevoli all’alternativa rifiutata. La dissonanza cresce nella misura in cui le due alternative si presentano come importanti, ugualmente attraenti e plausibili, anche se con caratteristiche diverse, e quando la scelta comporta anche l’accettazione delle conseguenze negative che sono a essa associate. Studi nei quali è stato chiesto ai soggetti di scegliere tra oggetti ugualmente desiderabili rivelano la tendenza a un atteggiamento più favorevole verso la decisione presa, meno favorevole verso l’altra possibilità (ad esempio, la scelta tra due modelli di macchine da acquistare, o tra due luoghi in cui stabilire la propria abitazione).
– Situazione 5: soggetti che subiscono una disconferma di qualche credenza per loro molto importante e significativa (dissonanza derivata dalla disconferma di una credenza importante). Le persone o i gruppi tendono a razionalizzare o a rafforzare le loro credenze quando ricevono di esse disconferme. Questo però si verifica solo a certe condizioni, e cioè se: a) la credenza è molto forte, b) su di essa vi è stata un’esposizione pubblica, c) la credenza può avere o ha la disconferma di un fatto inequivocabile e d) non vi è un sostegno sociale a favore del suo cambiamento.

1.6.2 Condizioni dell’efficacia della dissonanza cognitiva

Molte ricerche hanno utilizzato la teoria della dissonanza cognitiva per lo studio dei cambiamenti di opinione o di atteggiamento. L’ipotesi da verificare è che, cambiando le informazioni o le componenti cognitive, si pongono le condizioni per il cambiamento delle opinioni o che, inducendo un disagio interno nell’equilibrio di valutazioni, la situazione di incongruità si risolverà in una modificazione dell’atteggiamento. Le ricerche sulla dissonanza hanno dimostrato che il risultato non è tuttavia sempre certo. Una dissonanza sul ‘fumare’ può risolversi in modo diverso: "Non fumo perché il fumare provoca il cancro", "Continuo a fumare perché una correlazione tra fumo e cancro non dimostra che il cancro è provocato dal fumo", "Fumo la pipa, perché fumare la pipa è meno pericoloso". Lo stato di dissonanza cognitiva sembra diventare efficace nel cambiamento di un atteggiamento a queste condizioni:
a) se la persona è indotta a eseguire un atto che non è contrario al proprio atteggiamento personale;
b) se un’azione indotta da una ricompensa o punizione è percepita come insufficiente a giustificare il cambiamento, e quindi il cambiamento stesso è percepito come una libera scelta;
c) se si dimostra il riconoscimento sociale che sarà ottenuto dal cambiamento di atteggiamento;
d) se si inducono informazioni incongruenti con le credenze e comportamenti che contrastano gli atteggiamenti preesistenti, si accresce di molto il disagio prodotto dalla dissonanza cognitiva;
e) se la dissonanza che intende promuovere un cambiamento dell’atteggiamento si dirige sia alla componente cognitiva (informazioni) che a quelle affettiva (emozione) e comportamentale (azione);
f) se il cambiamento indotto si produce attraverso progressive approssimazioni.

1.6.3 Teorie interpretative in competizione con la dissonanza cognitiva

Bem (1967) ha sottolineato che la teoria della dissonanza cognitiva non è una vera teoria. Il comportamento che essa descrive (il suo punto di vista è comportamentista) è definibile da variabili contestuali come ricompensa, costrizione / libera scelta. Cooper e Fazio (1984) hanno proposto che nella dissonanza cognitiva si dovrebbero distinguere due elementi: attivazione della dissonanza e motivazione della dissonanza. La prima è uno stato di attivazione generale e indifferenziato, che, se vissuto positivamente, non induce i processi di cambiamento. La seconda, invece, corrisponde alla prima vissuta in termini negativi, con la libera scelta di impegnarsi in un’azione contraria all’atteggiamento. Solo in questo caso la dissonanza cognitiva sarebbe anche una motivazione al cambiamento.

1.6.4 Dissonanza cognitiva e fruizione dei media

A partire dalle osservazioni e dei dati che precedono, diventa interessante osservare il comportamento del ‘ricevente’ nei confronti dei media. Piuttosto che soggetto passivo appare soggetto particolarmente attivo; non target ma ‘ricercatore’ di messaggi. Egli cerca di evitare quanto induce dissonanza cognitiva e sceglie quanto lo aiuta a ridurre i costi di una dissonanza già esistente. Ad esempio chi ha una fede religiosa sofferta cercherà programmi che lo sostengono nella sua ricerca; chi invece il problema religioso non se lo pone, eviterà con cura gli stessi programmi. Sono riflessioni analoghe a quelle proposte da E. Katz e P. Lazarsfeld (Personal Influence 1955) quando parlano della capacità selettiva del soggetto (a livello di esposizione, di comprensione, di memorizzazione). La scoperta che il media-utente è un ‘cercatore di informazioni’ a partire da un suo bisogno di equilibrio e di integrità personale non è tranquillizzante, come se questo lo salvasse dall’alluvione di messaggi inappropriati. Pone con maggior forza il problema della qualità della proposta dei media. La capacità di scegliere è un valore se il contesto mette nelle condizioni di esercitare questa scelta. In altri termini: è inutile lamentarsi delle scelte dell’audience, bisogna far arrivare sul mercato prodotti migliori.
Per approfondimenti: [5]

1.7 LE TEORIE DI HOVLAND E LA SCUOLA DI YALE

Carl Hovland è stato uno psicologo sociale americano, nato nel 1912, pioniere della ricerca sulla comunicazione persuasoria. Durante la seconda guerra mondiale è chiamato, in quanto esperto di problemi del condizionamento e dell’apprendimento, a condurre studi sperimentali sul morale dell’esercito, valutando in particolare l’efficacia della serie di film Perché combattiamo. Finita la guerra, Hovland torna alla Yale University quale direttore della cattedra in psicologia e di un nuovo programma di ricerche su comunicazione e atteggiamenti. Utilizzando in partenza i risultati ottenuti in ambito militare, negli anni Cinquanta porta avanti sperimentazioni fortemente controllate per giungere a conclusioni teoriche. Il modello di Hovland e dei suoi collaboratori, "liberato dall’impostazione comportamentistica che inizialmente lo caratterizzava, può fornire ancor oggi – secondo G. Losito – indicazioni significative e rappresentare un utile punto di riferimento", configurandosi come un più generale modello di comunicazione. Hovland muore nel 1961. Tra le sue opere più significative (in genere elaborate insieme a collaboratori): Experiments on mass communication. Studies in social psychology in World War II, vol.3 (Princeton University Press, Princeton, N.J., 1949); Communication and persuasion. Psychological studies of opinion change (1953); The order of presentation in persuasion (1957); Social judgement (1965), salvo la prima, tutte opere pubblicate dalla Yale University Press, New Haven (CT).
Il programma della Yale University intendeva risolvere questioni di base relative al processo della persuasione:
  • un aspetto unico dell’argomentazione è più efficace di due?
  • è meglio l’approccio diretto o quello indiretto?
  • il comunicatore percepito come attendibile convince di più?
  • in che consiste la credibilità?
  • è possibile ‘vaccinare’ un pubblico nei confronti di effetti indesiderati?
  • i richiami intimidatori ed emotivi sono efficaci?
  • come influisce su un gruppo il cambio di atteggiamento di una persona?
I lavori di Hovland e colleghi identificano le caratteristiche chiave della fonte connesse all’effetto persuasivo e analizzano l’importanza di ciascuna di esse nell’aumentare o nel diminuire tale effetto. Fra le caratteristiche individuate, la credibilità (credibility), la competenza (expertise), l’affidabilità (trustworthiness) e la simpatia (liking) sono considerate le più importanti, mentre la somiglianza (similarity) e l’attrattiva (attractiveness) come meno decisive.
Il gruppo di Yale dimostra pure che il potere persuasivo di un messaggio è connesso anche alle componenti strutturali del messaggio stesso. A questo proposito, il gruppo cerca di rispondere soprattutto a due importanti questioni, e cioè:
  • è preferibile suscitare emozioni o affidarsi ad argomentazioni logiche?
  • è più opportuno proporre una tesi sola (messaggio unilaterale) o tesi alternative (messaggio bilaterale)?
Gli studi accertano che per entrambi le questioni non esiste una risposta univoca. A seconda dei casi, infatti, può essere meglio far leva sulla forza delle emozioni o del ragionamento, come anche ricorrere a volte a tesi favorevoli, altre volte a tesi sia favorevoli che contrarie.
Il modello di persuasione proposto da Hovland si articola in sei fasi, tre concernenti la ricezione e tre l’accettazione.
Nel ‘processo di ricezione’ si susseguono:
1) esposizione al messaggio (attività selettiva, con funzioni esplicite, come la ricerca di informazioni, o implicite, come la conferma di proprie opinioni o la soddisfazione di bisogni e gratificazione);
2) allocazione dell’attenzione (anch’essa selettiva, volontaria o involontaria, è la principale condizione della ‘percezione’);
3) comprensione (rende compiuto il processo della ricezione, attraverso una decodifica del messaggio da parte del destinatario corrispondente alla codifica della fonte; è tanto maggiore quanto minore è lo ‘sforzo cognitivo’ richiesto).
Nel ‘processo di accettazione’ figurano:
1) mutamento di atteggiamento (si considera tale sia l’induzione di un nuovo atteggiamento sia il rafforzamento o la conversione di uno preesistente);
2) persistenza del mutamento (può essere totale cioè costante nel tempo, parziale quando va attenuandosi senza tornare alla situazione iniziale, latente quando si consolida nel tempo);
3) azione (ultima fase del modello di persuasione, vede il passaggio ‘dall’atteggiamento al comportamento’).
Il contributo di Hovland è particolarmente rilevante per le acquisizioni sulla ‘disponibilità a essere persuasi’ (persuasibility), in cui analizza, tra l’altro, i vantaggi di presentare gli argomenti in un certo ordine e gli effetti che il cambio di una componente inducono sullo schema complessivo dell’atteggiamento, nonché per l’approfondimento della cognitive consistency.
Nell’attribuirgli un premio speciale per meriti scientifici l’American Psychological Association evidenziò – come ricorda W. Schramm – la "importanza nodale del suo lavoro per il progresso della ricerca sull’atteggiamento fino al punto di essere in grado di predire quando e dove si sarebbero verificati mutamenti".
Per approfondimenti: [6]

1.8 PETTY E CACIOPPO (Modello bimodale della probabilità di elaborazione)

Lo studio del cambiamento degli atteggiamenti è stato intenso. Sull’argomento si sono sviluppate molte teorie: la teoria comportamentista (Comportamentismo), la teoria della tendenza alla difesa della coerenza della mappa cognitiva (Dissonanza cognitiva), la teoria attribuzionale (le inferenze sulle cause interne o esterne di un comportamento possono esercitare un’azione di mediazione rispetto a un a.), la teoria probabilistica (calcolo matematico del cambiamento delle credenze), la teoria dell’auto-persuasione (il cambiamento non è prodotto da uno stimolo esterno, ma da ragionamenti, riflessioni, argomentazioni, valutazioni interne al soggetto).
Le varie teorie non si escludono a vicenda, ma si applicano ad aspetti particolari del processo di cambiamento. Petty e Cacioppo (1986), nel loro "Modello della Probabilità di Elaborazione" (ELM), sottolineano che, invece di interpretare il processo di cambiamento attraverso particolari teorie, è più utile distinguere due vie (una centrale e una periferica) lungo le quali esso può avvenire. La prima, detta centrale, esige che il ricevente pensi criticamente al problema in questione, valuti i suoi punti di forza e di debolezza e ne elabori gli aspetti più importanti. In breve, che assuma un atteggiamento razionale e obiettivo. L’altra, detta periferica, è quella nella quale la persuasività è associata a uno stimolo persuasivo che, però, non ha nulla a che vedere con la sostanza del problema. In tale caso, sono gli aspetti emotivi a prevalere e questi, in quanto tali, non garantiscono il mantenimento nel tempo del livello di persuasione.
Sulla linea centrale il cambiamento dipenderebbe in modo particolare dal contesto, dalle conoscenze previe, dalle intenzioni, dalla motivazione a impegnarsi nell’elaborazione e nella riflessione sulla costruzione di un nuovo atteggiamento, dal possesso di adeguate capacità intellettive (cioè saper mantenere l’attenzione, rilevare e analizzare le informazioni importanti, fare inferenze, trarre conclusioni e valutazioni), dal numero delle argomentazioni favorevoli prodotte dal soggetto verso il messaggio ricevuto. Sulla linea periferica, nella quale si trovano anche atteggiamenti relativamente meno importanti, superficiali e temporanei, sono invece rilevanti le sensazioni positive o negative, l’importanza attribuita alla fonte, il numero degli argomenti.
È tuttavia molto difficile produrre un cambiamento di atteggiamenti in qualcuno che si è compromesso pubblicamente per una valutazione positiva o negativa
1988: spot durante le elezioni George Bush vs Dukakis. Lo spot, preparato per Bush, raccontava la storia di W. Horton, un nero finito in carcere per omicidio. Nel periodo in cui Dukakis era stato governatore del Massachusetts, Horton aveva beneficiato di un programma di permessi per i detenuti, violentando, in quel periodo, una donna bianca, e pugnalandone il compagno. Nel percorso periferico non occorreva un grande sforzo di riflessione (Dukakis ha fatto uscire Horton di prigione perché stuprasse e uccidesse, ha un atteggiamento debole con i criminali, in particolare con quelli cattivi e neri). Bush appariva forte e capace di proteggere da individui come W. Horton. Nel percorso centrale il telespettatore avrebbe potuto farsi domande sull’utilità del programma di permessi per i detenuti, e lo spot appariva potenzialmente meno efficace: avrebbe persino potuto danneggiare la campagna di Bush, perché rispondeva a poche delle domande che un telespettatore attento avrebbe potuto porsi.
Per approfondimenti: [7]

1.9 Modello unimodale di Kruglanski

Quanto segue in questa sezione è liberamente tratto dalla parte introduttiva di: [8]

1.9.1 Premessa: i modelli a due vie

Nello studio della comunicazione persuasiva esistono due formulazioni teoriche definite come i modelli a due vie della comunicazione persuasiva: il modello della probabilità di elaborazione (Elaboration Likelihood Model {ELM} di Petty e Cacioppo) e il modello euristico-sistematico (Heuristic Systematic Model, {HSM}: Chaiken et al.). Entrambi rappresentano una soluzione alle molte contraddizioni esistenti a livello concettuale ed empirico nei modelli messi a punto prima degli anni ’80. In sintesi, essi sostengono che la persuasione è mediata qualitativamente da due distinti percorsi:
  1. un percorso centrale (per l’ELM) o sistematico (per I’HSM) nel quale opinioni e atteggiamenti si fondano su argomenti e informazioni accuratamente processate nel messaggio persuasivo. In questo caso ogni variabile che aumenta la probabilità di elaborazione cognitiva alimenta la probabilità dell’utilizzo della via centrale;
  2. un percorso periferico (per l’ELM) o euristico (per l’HSM) nel quale atteggiamenti e opinioni sono basati su elementi non direttamente pertinenti al tema, esogeni al messaggio, o su euristiche che non riguardano il contenuto del messaggio, che rispondono al bisogno di risparmio di risorse cognitive.
Come sottolineato da Kruglanski e Thompson, questi due modelli, pur differenziandosi per alcuni aspetti soprattutto relativi al secondo tipo di elaborazione (periferico ed euristico), hanno moti punti in comune:
a) entrambi prevedono due modalità qualitativamente diverse di persuasione, di cui una più completa ed elaborata;
b) entrambi assumono che l’impegno in questo percorso più accurato (la via centrale a sistematica) dipende da sufficiente motivazione e abilità a processare l’informazione;
c) entrambi sostengono che la persuasione prodotta attraverso la via centrale o sistematica è più persistente, più strettamente legata al successivo comportamento e più resistente alla persuasioni rispetto a quella determinata dal percorso periferico o euristico;
d) entrambi i modelli asseriscono che i due percorsi (le due modalità di persuasione) possono co-occorrere, anche se l’esatta modalità delle co­occorrenze è rappresentata in modo diverso.
e) in entrambi i moduli la motivazione rappresenta per "default" nei contesti di persuasione il desiderio di avere precisi atteggiamenti e opinioni, così come si assume pure che a prescindere dal livello di accuratezza il percorso centrale o sistematico può essere influenzato da motivazioni alterne.

1.9.2 La persuasione tramite una sola via (Unimodel)

La formulazione teorica di Kruglanski e Thompson prefigura al contrario una visione "unimodale" nei processi di comunicazione persuasiva e delinea una innovativa concettualizzazione del fenomeno persuasivo. Sulla base di uno studio critico delle impostazioni teoriche e degli esiti conseguiti negli esperimenti dei modelli a due vie, l’Unimodel propone, infatti, un’integrazione delle due vie che conducono alla persuasione e suggerisce che il cambiamento di atteggiamento, causato dall’esposizione a una comunicazione persuasiva, avvenga tramite un unico percorso.
Il punto di forza dell’Unimodel consiste nell’aver focalizzato i due percorsi alla persuasione (centrale vs. periferico e sistematico vs. euristico) che caratterizzano i modelli a due vie, come casi speciali di un medesimo processo, annullando la partizione di Laswell tra categorie rileganti da un punto di vista persuasivo. Ciò non significa che le categorie laswelliane "chi / dice cosa / tramite quale canale / a chi / con quali effetti" non siam reali: semplicemente esse non rappresentano secondo questi autori distinzioni significative per il fenomeno persuasivo. Anche se i modelli a due vie hanno preso le distanze dall’approccio "a lista di variabili" ispirato a quella classificazione, essi finiscono tuttavia per aderire a tale schema: infatti considerano come premessa di fondo la partizione laswelliana tra persuasione basata sul messaggio (che avviene attraverso le vie centrale / sistematica) e persuasione basata sui fattori circa la fonte (che avviene attraverso le vie periferica / euristica). AI contrario, l’Unimodel si allontana in modo inequivocabile dallo schema di Laswell, trattando gli argomenti del messaggio e gli indici periferici come casi speciali di una più astratta categoria dì evidenza persuasiva.
Mettendo in discussione la differenziazione tra argomenti e segnali periferici, l’Unimodel considera entrambe le categorie come semplici informazioni, che hanno la stessa funzione dai punto di vista qualitativo: un processo persuasivo può svolgersi indipendentemente dal fatto che i contenuti informazionali ricevuti da un soggetto coincidano con i temi del messaggio o con gli indici eterni ad esso. Secondo la teoria dell’epistemologia ingenua (LET) formulata da Kruglanski, questa prospettiva prevede inoltre che i due diversi tipi di elaborazione (centrale vs. periferico e sistematico vs. euristico) condividano una fondamentale somiglianza, essendo entrambi mediati da un ragionamento sillogistico "se, allora" che porta dall’evidenza alle conclusioni. In questa ottica, il ruolo svolto dagli indici euristici c dai temi è essenzialmente lo stessa, dal momento che entrambi costituiscano forme di evidenza e sono funzionalmente equivalenti; non esiste pertanto tra loro alcuna differenza nella funzione svolta da ciascuno nel processo persuasiva, così come essi non differiscono nella difficoltà di elaborazione.
In questa formulazione che integra in un unico percorso le due vie che conducono alla persuasione, gli autori avanzano una ulteriore critica nei confronti delle impostazioni teoriche negli esperimenti dei modelli a due vie, connotati da una presentazione standard del messaggio, caratterizzato dalla collocazione di indici periferici brevi, seguiti da argomenti lunghi ed elaborati. Kruglanski e Thompson suggeriscono la possibilità di alterare l’ordine e le peculiarità che contraddistinguono i due diversi tipi di informazione: nei doro esperimenti modificano la struttura della comunicazione persuasiva, utilizzando al contrario brevi cenni sugli argomenti e lunghe informazioni sugli indici euristici. L’Unimodel implica dunque che gli esiti legati al processo persuasivo derivino dalla profondità e dall’estensione dell’elaborazione, in funzione del livello di coinvolgimento dei soggetti [A]  [A] che può dipendere ad esempio da: “rilevanza personale”, “avere difficoltà nel compito”, “motivazione all’elaborazione”, “capacità cognitiva”, ecc., piuttosto che dal tipo di informazione processata e di argomentazioni forti e deboli del messaggio. Ciò a dimostrazione che un processo persuasivo avviene indipendentemente dal fatto che i contenuti informazionali di un messaggio coincidano con gli argomenti o con gli indici periferici, dal momento che l’elemento determinante dell’elaborazione riguarda la lunghezza e la complessità del dato informativo, qualunque esso sia.

2 L’avvento del telefonino e dei nuovi media

Dire che il cellulare è un telefono è un’affermazione impropria e riduttiva. In realtà è un nuovo strumento di comunicazione personale, che ha – accanto a molte altre potenzialità – alcune forme di utilizzazione tipiche del telefono; per questo è chiamato telefonino, telefono cellulare, cellulare o smartphone (quest’ultimo termine letteralmente significa “telefono intelligente”, lo smartphone unisce alle caratteristiche di un telefono cellulare le potenzialità di un piccolo computer con fotocamera, videocamera, servizio GPS, presenza di un sistema operativo completo, autonomo e personalizzabile con una vasta scelta di applicativi disponibili, normalmente dotato di un collegamento a Internet continuo ed efficiente).
La storia del telefono cellulare è sintetizzabile con il termine “invasione”: in Italia è arrivato nel 1990, inizialmente averne uno era una rarità. Secondo statistiche recenti [B]  [B] http://www.wired.it/internet/social-network/2014/02/17/lo-scenario-social-digital-e-mobile-europa-e-italia/ (2014), con una popolazione di 61,5 milioni di abitanti, l’Italia ha 35,5 milioni utenti Internet, 26 milioni di utenti Facebook attivi e ben 97 milioni di abbonamenti mobile attivi, il 58% in più rispetto al totale della popolazione, ossia una persona su due ha due SIM. E’ da sottolineare che, almeno in Italia, per una parte significativa della popolazione, lo smartphone ha rappresentato il primo strumento (e a volte unico) di accesso a Internet.
Per approfondimenti: [10]

2.1 Teoria dell’obbligatorietà della connessione in mobilità (di Francesco Galgani)

Per la pubblicazione originale di questa teoria, con links di approfondimento, si veda: [9]
Dal punto di vista della Psicologia della Comunicazione, è fondamentale osservare che il cellulare è di fatto l’interfaccia mobile e personale che consente al singolo, ovunque si trovi, di essere in rete. Di conseguenza è difficile intravedere limiti al suo sviluppo: tutto ciò che è e sarà disponibile in Internet è e sarà gestibile tramite il cellulare. A questa osservazione ne andrebbe aggiunta anche un’altra: la pervasività e onnipresenza del telefonino porta alla costruzione di una certa realtà sociale, ma al tempo stesso la realtà sociale condiziona significativamente la libertà di uso o non uso di tale strumento e dei mondi ad esso collegati (social networks e strumenti di messaggistica in primis), sancendo di fatto un’esclusione sociale verso chi non lo usa e altri problemi relazionali. Se a questo si aggiunge che la solitudine è uno stato d’animo crescente nelle società ipertecnologiche, è evidente che il ruolo sociale del telefonino, divenuto anche “strumento di pseudo-contatto riempitivo di vuoti interiori”, è sufficiente a motivarne l’uso, da un punto di vista soggettivo, a prescindere dai risvolti negativi ad esso collegati, tra cui:
  • tumori al cervello e altri malesseri fisici (mal di testa, mal di collo, problemi di postura, altro);
  • pericolo di vita e di gravi incidenti, specialmente se usato durante la guida o comunque in situazioni che non permettono distrazioni;
  • disturbi dell’umore e calo del benessere individuale;
  • riduzione del rispetto e dell’attenzione per le persone fisicamente presenti, fino a svuotare l’importanza di quanto avviene “qui e ora”;
  • minore produttività e maggior nervosismo e distrazioni, soprattutto a causa del multitasking e del costante bisogno di reperibilità indotti dal mezzo;
  • spese economiche e di tempo considerevoli per il solo uso del telefonino;
  • non ultimo il fatto che tutte le comunicazioni private sono sotto controllo, spiate, tracciate, anche con localizzazione dell’utente e senza alcun controllo dello stesso sulle informazioni, gestite da terzi, che lo riguardano, in palese violazione dell’art. 12 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Il marketing esasperato che fa di tutto per spingere all’uso del telefonino e dei contesti virtuali ad esso collegati, unito alla spirale del silenzio attorno ai problemi seri sopra citati e all’assenza di un quadro legislativo internazionale e intercontinentale che tuteli gli utenti, non fa altro che render ancora più forte la tesi qui proposta.
Le basi documentarie per quanto da me qui affermato sono vari articoli e ricerche da me pubblicati su www.informatica-libera.net, principalmente (ma non solo) nella sezione “Vita in Rete”.
Francesco Galgani, 12 maggio 2015

3 Teorie sull’influenza sociale

3.1 Asch e Milgram: influenza delle maggioranze

Fonte, corredata di due video che mostrano lo svolgimento degli esperimenti di Asch e Milgram: [11]

3.1.1 L’esperimento di Asch - Conformismo al gruppo

Nel 1956 Solomon Asch (Varsavia, 14 settembre 1907 – 20 febbraio 1996), psicologo polacco naturalizzato statunitense, entra di diritto nella sfera della comunità scientifica internazionale con l’esperimento che oggi porta il suo nome, dimostrando che l’appartenenza ad un gruppo ammorbidisce il nostro senso critico, conformando il nostro pensiero e le nostre percezioni a quelle diffuse.
Il soggetto viene invitato a partecipare ad alcuni test sulla percezione visiva: su un foglio vengono rappresentate delle linee numerate di lunghezza decrescente, e a sinistra una linea che deve essere abbinata alla propria gemella a destra; oltre al soggetto sottoposte al test ci sono altre sette persone, che complici dell’ esperimento in alcune situazioni mentiranno tutte per condizionare il parere del nostro. Essendo l’ ultimo a rispondere, il nostro rifiuterà la propria percezione visiva per adattarla a quella dei propri compagni.
Nell’esperimento è dimostrato come di fronte ad una situazione di scontro, quello cioè tra le proprie percezioni dirette e quelle del resto del gruppo, il soggetto sia visibilmente influenzato dalle opinioni altrui, dando una risposta sbagliata ma concordante con l’ opinione del gruppo.
Nell’esperimento originale di Asch, il 25% dei partecipanti non si conformò alla maggioranza, ma il 75% si conformò almeno una volta alla pressione del gruppo (ed il 5% dei soggetti si adeguò ad ogni singola ripetizione della prova).
Risulta quindi come l’appartenenza ad un gruppo condizioni una nostra percezione diretta, il tutto in maniera inconsapevole.

3.1.2 L’esperimento di Milgram - Obbedienza all’autorità

Stanley Milgram (New York, 15 agosto 1933 – New York, 20 dicembre 1984), psicologo statunitense ed allievo di Asch, nel 1961 va oltre: dimostra come un autorità possa condizionare i valori etici e morali del soggetto sottoposto.
L’esperimento ha tre protagonisti: Lo scienziato, che diventerà la nostra autorità, e una coppia di individui qualsiasi. Come nel caso precedente, solo uno è ignaro del tutto mentre l’altro è complice.
Un sorteggio truccato designerà i ruoli “allievo” per il gancio e “insegnante” al soggetto, l’allievo dovrà essere collegato ad un generatore di corrente elettrica, e l’insegnante alla centralina di questa: per togliere ogni dubbio, all’insegnante viene fatta provare di persona una scossa da 45 v, e gli viene spiegato che dovrà leggere all’allievo una coppia di parole, e delle opzioni alternative per la seconda ; in caso di scelta sbagliata, l’insegnante dovrà punire l’allievo con delle scosse sempre crescenti ad ogni errore, spesso incalzato dallo scienziato.
Il condizionamento qui è ancora più forte e, cosa più sbalorditiva, si scontra con le nostre radici etiche e morali, sradicandole almeno nella maggior parte dei casi.
Se i soggetti continuavano a desiderare di interrompere l’esperimento dopo la quarta indicazione l’esperimento veniva interrotto. Oppure, veniva sospeso dopo che il soggetto aveva dato il massimo alla centralina, provocando uno shock a 450 volt, tre volte in successione.
Al termine dell’esperimento è stato rivelato che fortunatamente l’allievo stava solo simulando dolore e non ha mai sentito nulla, ma i dati non sono molto rassicuranti:
Il 65% dei partecipanti somministrò il livello finale di shock di 450 volt, sebbene si sentissero molto a disagio nel farlo. Qualcuno si fermò e mise in discussione l’esperimento, qualcun altro si informò sul denaro che avrebbe ricevuto in cambio. Nessuno dei partecipanti rifiutò di dare uno shock prima che questo raggiungesse il livello di 300 volt.

3.2 Moscovici e Nemeth: influenza delle minoranze

Fonte: [12]
Quello dell’influenza minoritaria, ovvero dell’influenza esercitata da soggetti – individui o gruppi – che non sono in condizione di vantaggio sociale, nei confronti delle maggioranze, è un capitolo relativamente nuovo della psicologia sociale.
La storia del XX secolo appariva fino al secondo dopoguerra come una storia scritta da leaders carismatici e masse segnate dalla conformità. Gli anni ‘60 sembrano l’inizio di un capitolo della storia sociale scritto da individui o gruppi le cui posizioni divergono fortemente dalle posizioni maggioritarie.[1]
È, in particolare, con Serge Moscovici, a partire dal suo lavoro Psicologia delle minoranze attive (1976) che ci si orienta a meglio comprendere le condizioni e gli effetti delle posizioni espresse da gruppi minoritari all’interno della società, alla luce di una significativa distinzione tra il cosiddetto modello funzionalista (la realtà sociale è intesa come un dato di fatto ed i processi corrispondono primariamente ad una funzione adattiva e conservativa) ed il nuovo modello genetico (che prospetta una concezione costruttivista ed innovativa delle relazioni sociali).
L’osservazione di Moscovici è che la concezione funzionalista della società porta ad interpretare le relazioni tra gli individui ed i diversi gruppi in termini di adattamento e conservazione dei riferimenti normativi, in base ad un circolo chiuso rappresentato da controllo sociale e conformità.
La proposta conseguente all’approccio genetico è quella di guardare alla società come ad un luogo di conflitti capaci di attivare processi di cambiamento attraverso l’innovazione dei presupposti valutativi.
L’attenzione di Moscovici e degli interpreti dell’influenza minoritaria è fortemente rivolta ai processi di relazione e comunicazione perché è in questi ambiti che si colgono le ragioni dell’efficacia della persuasione orientata all’innovazione. Al riguardo si distinguono due aspetti del comportamento comunicativo: strumentale, relativo all’oggetto del contendere, ovvero alle qualità proprie di ciò che viene comunicato, potremmo dire di contenuto; simbolico, che dà informazioni sull’attore ovvero riferibile alle caratteristiche che vengono riconosciute al soggetto minoritario in conseguenza del suo comportamento (riconducibile dunque alla fonte).
Fondamentale è lo stile, ovvero la consistenza dei comportamenti con cui la minoranza difende e sostiene la propria posizione; una consistenza che si esprime a livello intra-individuale in termine di congruenza e compattezza delle argomentazioni anche con riferimento al tempo, attraverso la continuità e determinazione con cui le proprie ragioni ed argomentazioni vengono portate avanti (consistenza diacronica) ma che si manifesta anche attraverso la compattezza delle posizioni dei diversi individui all’interno della minoranza (la consistenza interindividuale o sincronica).
L’esperimento della “torre di controllo” è storicamente ricordato per aver messo in luce l’impatto persuasivo della semplice persistenza sistematica di un qualsiasi giudizio.
Non è qui possibile rendere conto della molteplicità delle considerazioni presenti in letteratura intorno alle dinamiche minoritarie. In estrema sintesi si può rilevare che per quanto le minoranze siano meno influenti a livello pubblico sulle persone quando altri membri della maggioranza oppongono resistenze, viene ad essere comunque confermata la possibilità per le minoranze di conseguire un’influenza sulle maggioranze.
La questione chiave riguarda piuttosto la natura del cambiamento indotto dalle minoranze, confrontato con quello derivante dall’influenza maggioritaria e che riguarda in modo importante le convinzioni profonde piuttosto che quelle di superficie indotte dai due tipi d’influenza.
In un famoso studio, detto dell’after effect o effetto postumo, dal nome dell’effetto percettivo utilizzato da Moscovici e Personnaz (1980) nella costruzione e nello sviluppo del disegno sperimentale, i soggetti sono divisi in coppie formate da un soggetto ingenuo e da un complice.[2]
Il disegno sperimentale prevede quattro fasi.
  1. Si mostra ai soggetti una serie di cinque diapositive verdi o blu, acquisendo la risposta in privato relativamente al colore primario e a quello postumo. Lo sperimentatore “informa” i soggetti intorno alle risultanze di precedenti analoghi studi. In realtà, si crea un’identificazione del soggetto ingenuo con una fantomatica maggioranza/minoranza;
  2. a seguire ulteriori somministrazioni di diapositive, i soggetti esprimono i giudizi pubblicamente, senza pronunciarsi sul colore residuo. Il soggetto complice – che risponde per primo – afferma sempre che le diapositive sono “verdi”;
  3. la coppia torna ad esprimere segretamente il giudizio di discriminazione del colore della diapositiva e dell’after effect;
  4. il complice dello sperimentatore si allontana. Il soggetto ingenuo risponde di nuovo ad altre 5 prove, in privato (colore e after effect).
Nelle condizioni in cui l’influenza si configura come minoritaria si osserva un significativo spostamento del giudizio relativo al colore postumo del verde (il rosso-viola) che viene espresso dai soggetti influenzati. In sostanza, i soggetti esposti all’influenza minoritaria non cambiano solo il giudizio percettivo relativo al colore primario (che è esposto pubblicamente) ma anche quello concernente il colore fantasma senza che mai questo colore sia stato valutato in situazione di confronto sociale. Dunque, una volta che ci si orienta verso la posizione della minoranza, non cambiano solo i giudizi pubblici ma anche le percezioni per così dire interne, le credenze e le convinzioni più profonde.
Si possono formulare alcune risposte all’interrogativo sulle ragioni dell’efficacia persuasiva della minoranza.
Il fatto stesso che sia espressa da una minoranza una posizione diversa induce la maggioranza ad interrogarsi sulle sue credenze e questo può evidenziare alle stesse maggioranze la relativa fragilità degli assunti di valore e di realtà alla base delle proprie posizioni. Le posizioni della minoranza, solide e coerenti nelle diverse situazioni, possono allora incrementare nella maggioranza la percezione che la minoranza stessa possieda e possa interpretare convinzioni più profonde, con possibili, conseguenti effetti di conversione tra la platea maggioritaria.
Al termine di questa sintetica esposizione dei principi fondamentali dell’interpretazione genetica, si può osservare che la coerenza e consistenza delle posizioni espresse sono una condizione necessaria affinché una minoranza possa giungere a legittimare le proprie idee, ma che la consistenza è una caratteristica che certamente non nuoce alle strategie persuasive delle maggioranze. Tanto le posizioni minoritarie che maggioritarie traggono vantaggio dalla ripetizione sistematica delle proprie idee e dalla formulazione congruente delle proprie argomentazioni. D’altra parte il fattore di ripetizione sistematica è alla base di tutte le campagne importanti di comunicazione pubblica. Tanto a livello politico quanto a livello commerciale, le campagne della comunicazione sono essenzialmente impostate nella ricerca della coerenza e sulla ripetizione talvolta ossessiva di alcuni contenuti chiave.
Tra influenza maggioritaria ed influenza minoritaria la differenza fondamentale risiede piuttosto negli effetti del processo della comunicazione sociale.
Moscovici sostiene che nel paradigma del conformismo, la maggioranza mette in atto un processo di confronto sociale, nel quale il soggetto confronta la propria risposta con quella degli altri senza dedicare molta attenzione o riflessione all’argomento stesso. Per quel che riguarda gli effetti, Moscovici afferma che la maggioranza suscita unicamente un’acquiescenza a livello pubblico. Qualsiasi effetto prodotto a livello interiore avrebbe vita breve perchè una volta che la persona sia libera dalla presenza della maggioranza si concentrerebbe nuovamente sul problema e ritornerebbe sulle proprie posizioni precedenti. Al contrario, una minoranza stimola un processo di validazione, un’attività cognitiva che mira a comprendere perchè la minoranza rimane coerente alla propria posizione. L’attenzione sarà pertanto diretta all’oggetto, e nel corso di questo processo può accadere che il soggetto di maggioranza, a volte senza persino rendersene conto, incominci ad osservare l’oggetto dal punto di vista della minoranza e si converta interiormente (o a livello latente) alla sua posizione. Le pressioni normative della maggioranza (se resistono apertamente almeno) impediranno tuttavia che quest’effetto si manifesti pubblicamente. Secondo Moscovici quindi, le maggioranze provocano acquiescenza (senza conversione) e le minoranze provocano conversione (senza acquiescenza).
Oltre a questi due effetti (acquiescenza e conversione), un altro effetto importante connesso all’influenza minoritaria è l’effetto divergenza messo in evidenza da Nemeth. Quest’effetto è favorito nelle situazioni in cui il contesto (quando vige la norma sociale di originalità o di innovazione), il compito o il tipo di stimolo (la presenza di una minoranza) sollecitano le persone a pensare e ad agire in modo autonomo, assumendo posizioni personali o esprimendo idee nuove o originali. La teoria della divergenza di Nemeth che in pratica costituisce un’estensione della teoria dell’influenza minoritaria, supera la definizione ristretta dell’influenza in termini di “prendere il sopravvento”, proponendo una definizione che tiene conto anche del modo in cui il dissenso minoritario condiziona le persone a pensare a un dato argomento in modi diversi. Le persone esposte all’influenza minoritaria si impegnano in un’attività di pensiero divergente per cui invece di adottare semplicemente le posizioni minoritarie, cercano e scoprono soluzioni alternative, diverse da quelle direttamente proposte dalla minoranza, soluzioni nuove che senza la sua influenza non sarebbero state scoperte.
[1] Moscovici S. [1976], Psicologia delle minoranze attive, Boringhieri, Torino 1981; pag. 9.
[2] L’espressione after effect si riferisce al fatto che se osserviamo intensamente uno stimolo colore posto su sfondo bianco, alla scomparsa dello stimolo segue la percezione di un colore postumo che è identificato nel colore complementare del primo, al livello della scala cromatica.

4 La pubblicità

La pubblicità è una delle più tipiche forme di comunicazione persuasiva, che mirano cioè deliberatamente a influenzare conoscenze, valutazioni, atteggiamenti, comportamenti in determinate aree dell’attività umana. Il suo principale campo di applicazione è sempre stato quello commerciale (al quale generalmente ci si riferisce quando il termine non viene seguito da alcuna specificazione); ma da tempo si sono notevolmente sviluppate anche varie forme di pubblicità non commerciale: sociale, pubblica, politica, religiosa, ecc. Strettamente connesso alla sua natura persuasiva è il linguaggio che essa adotta: fatto di messaggi brevi, semplici, sintetici, attraenti, suggestivi, enfatici, eufemici ed euforici, destinati a una ripetizione sistematica. Diffusi a pagamento attraverso tutti i canali utilizzabili, tali messaggi non mirano a suscitare dubbi, ma a creare certezze, rivolgendosi non tanto alla sfera razionale degli individui, quanto a quella emotiva. L’etimologia del termine, derivato dal latino publicare (originariamente ‘rendere di proprietà o di uso pubblico’, poi ‘esporre al pubblico’, ‘svelare’, ‘rendere noto’), appare dunque insufficiente a rivelarne il significato attuale, in cui l’aspetto fortemente persuasivo e non meramente referenziale risulta prevalente (altrettanto può dirsi per i termini usati nelle principali lingue straniere, da réclame a advertising, con esclusione del tedesco Werbung, derivante dal verbo werben che non significa soltanto ‘far conoscere’, ‘pubblicizzare’, ma anche ‘attirare’, ‘corteggiare’). La diffusione dei messaggi pubblicitari si caratterizza come fenomeno tendenzialmente pervasivo e intrusivo, con forzature che spesso danno luogo a reazioni di fastidio e anche di avversione e di rifiuto, nonostante le forme spettacolari e divertenti di molti annunci. Oltre che parassitaria in termini diffusivi (fino a rendere veicoli dei propri messaggi anche le persone), la pubblicità lo è anche nei contenuti dei suoi messaggi che, nel loro intento di attirare, di emozionare, di convincere, di indurre al consumo, attingono al patrimonio letterario, artistico, musicale, cavalcando mode, tic, avvenimenti, coinvolgendo personaggi e storie attuali o del passato. Non già proponendosi quale ‘specchio della realtà’ (come qualcuno tende ad affermare), ma selezionandone determinati aspetti, spesso deformandoli: proposti e riproposti sistematicamente, questi finiscono per diventare stereotipi e per influenzare la stessa costruzione sociale della realtà. Dunque uno "specchio distorto", descritto da un esperto di marketing, Richard W. Pollay, in uno studio ormai classico sulle modalità di influenza extraeconomica della pubblicità, il cui impatto, lungi dal verificarsi unicamente sul piano commerciale, finisce appunto per invadere altri campi, per incidere sulla mentalità, sull’educazione, sulla cultura. La diffusione dei messaggi pubblicitari avviene prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione, di massa e non, a vantaggio dei quali si traduce in autentico finanziamento la spesa che le imprese sostengono per l’acquisto degli spazi. Ciò viene sovente invocato come grande merito sociale della pubblicità da parte del mondo imprenditoriale e delle agenzie specializzate: si definisce così la pubblicità come fonte indispensabile della libertà dell’informazione dai condizionamenti del potere politico. In realtà, la situazione di scambio, fattasi sempre meno equilibrata a sfavore dei media, vede oggi la pubblicità come causa di orientamento editoriale, che provoca fenomeni di autocensura (trattamento dell’informazione subordinato all’esigenza di acquisire o di non perdere contratti pubblicitari) e anche di influenza diretta sulla gestione dei media (definizione dei palinsesti televisivi, scelta delle trasmissioni in funzione delle pressioni esercitate dagli sponsor, ecc.). La pubblicità si presenta quindi come un fenomeno complesso: essa nasce da esigenze soprattutto commerciali, certamente legittime, che ne fanno un importante strumento di sviluppo delle imprese; ma i suoi messaggi finiscono per invadere terreni altri, non soltanto per la loro ubiquità, ma anche per i caratteri del suo linguaggio, per i contenuti che propone nei suoi processi di cattura dell’attenzione, di provocazione dei sentimenti, di innesco motivazionale, per i condizionamenti che esercita sui mezzi che ne diffondono i messaggi stessi. Da questa complessità deriva la necessità di conoscerne i diversi aspetti, per valutarne la presenza sia nella realtà economica, sia, più ampiamente, nella gestione dei media e nella vita individuale e sociale. È appena il caso di soggiungere che viene qui considerata una pratica di comunicazione ben definita e che si esclude quindi dalla trattazione quel poco o quel tanto di pubblicitario che assumono molti fenomeni in misura crescente: dalla moda allo spettacolo, dal giornalismo alla politica. Fino a giustificare l’affermazione che, ormai, "tutto è pubblicità".
Per approfondimenti: [13]

5 Gli atteggiamenti

5.1 Cosa sono gli atteggiamenti e le tre componenti dell’atteggiamento

L’atteggiamento occupa da tempo un posto centrale nel campo degli studi di psicologia sociale. Il crescente interesse dei ricercatori per l’argomento è stato favorito dalla possibilità di disporre di un sistema di misurazione efficace risalente ai primi anni della ricerca psicologica (nel 1928 Thurstone pubblicò un articolo dal titolo: "Gli atteggiamenti possono essere misurati"). Gli atteggiamenti sembrano offrire indicazioni anticipatorie di comportamenti, di opinioni e di giudizi dei soggetti; il loro cambiamento consente di fare previsioni sull’evoluzione successivi atteggiamenti. Tali costrutti sembrano essere caratteristiche peculiari di un soggetto, che in essi definisce se stesso e ritrova il punto di riferimento di molti suoi comportamenti. Nonostante la grande quantità di ricerche e pubblicazioni, si sono date molte definizioni del concetto. Fischbein e Ajzen in un contributo del 1972 asseriscono di aver trovato 500 diverse definizioni operazionali e che nel 70% di 200 studi, nei quali l’atteggiamenti era stato definito in più di un modo, si erano ottenuti risultati diversi a seconda delle definizioni utilizzate.
Tra le diverse definizioni, che si possono dare, è importante distinguere tra definizioni operative e definizioni concettuali. Le prime sono in genere composte da due elementi: l’oggetto del pensiero (denaro, dovere, sé, una categoria di persone, umanità, ecc.) e le dimensioni del giudizio che su di esso viene rilevato (dimensioni di significato che le persone attribuiscono all’oggetto di interesse). Una definizione concettuale è molto più problematica, dipendendo dai punti di vista teorici dai quali ci si pone. Anche la più generica definizione "un atteggiamenti è un processo di mediazione che raggruppa un insieme di oggetti di pensiero in una categoria concettuale che richiama una struttura significativa di risposta", sottolinea McGuire (1985), è discutibile da prospettive diverse. Più che offrire una nuova definizione, qui preferiamo indicare le diverse caratteristiche che sono presenti nel concetto. Gli atteggiamenti:
a) sono costrutti teorici, cioè non direttamente osservabili; come molti altri costrutti psicologici, sono inferiti da comportamenti o da giudizi che le persone, molto facilmente e velocemente, esprimono riguardo a qualche oggetto;
b) esprimono una valutazione; moltissimi teorici implicitamente o esplicitamente attribuiscono agli atteggiamenti una componente valutativa verso un oggetto preciso;
c) hanno una componente affettiva; l’elemento di attrazione-repulsione è probabilmente il più rilevante e va distinto dalla valutazione con la quale non è unicamente correlato; può variare nella direzione positiva-negativa, nel grado di negatività o positività (fortemente, leggermente, incertamente) e nell’intensità di coinvolgimento in una particolare posizione; determina implicitamente il tipo di risposta che sarà dato quando la presenza di un oggetto solleciterà i motivi del comportamento;
d) hanno una componente comportamentale; gli atteggiamenti predispongono a un modo di agire secondo una certa valutazione. Tuttavia non sempre il comportamento è a essi coerente: le persone possono avere un atteggiamenti anarchico, ma non ribellarsi a un intervento della polizia. Il comportamento dipende da altre variabili oltre che dall’atteggiamento; per questo alcuni ricercatori tendono a distinguere il comportamento dall’atteggiamento;
e) hanno una componente cognitiva; un atteggiamenti di rispetto per la natura può essere accompagnato da conoscenze circa gli effetti negativi dell’inquinamento sulla salute. Da questo punto di vista un atteggiamenti può essere insegnato e appreso. Tuttavia non sempre un atteggiamenti è provvisto di chiare informazioni a suo sostegno. Spesso le persone possiedono solo uno speciale tipo di conoscenza, il cui contenuto è di tipo valutativo o affettivo;
f) hanno diverse dimensioni sulle quali possono essere misurati:
  • estremità (la forza in base alla quale qualcosa piace o è rifiutato),
  • intensità (il grado di affettività coinvolta),
  • sicurezza (il grado di certezza posseduto su un atteggiamento),
  • importanza (la rilevanza che un atteggiamenti ha per la persona che lo possiede),
  • interesse (il grado di ricerca o desiderio di essere informati su un atteggiamento),
  • conoscenza (la quantità di informazioni a disposizione a sostegno di un atteggiamento),
  • accessibilità (il legame presente nella mente tra un oggetto e la sua valutazione),
  • esperienza (il livello di esperienza diretto con un oggetto di valutazione),
  • ampiezza (l’arco di favore positivo o di rifiuto negativo di cui gode un oggetto),
  • coerenza (il grado di ambivalenza degli atteggiamenti).
Tutte queste dimensioni esprimono la ‘forza’ di un atteggiamenti e possono diventare indicatori della sua stabilità, della resistenza al cambiamento e dell’effetto che possono avere sulla percezione e il comportamento.
g) si distinguono dalle opinioni e credenze; sebbene gli atteggiamenti si fondino su credenze e portino alla formazione di comportamenti coerenti con esse, queste sono informazioni di per sé neutre su individui, oggetti e argomenti di scarsa rilevanza personale;
h) si distinguono dai valori; anche se la differenza è meno chiara, in genere, si ritiene che i valori siano concetti molto astratti e siano formati da gruppi di a.;
i) si differenziano anche dai motivi; i motivi sono stati emotivi, impulsivi e cognitivi attivati dagli atteggiamenti e possono essere presenti o assenti a seconda delle circostanze, mentre gli atteggiamenti sembrano coinvolgere processi cognitivi e motivazionali. La ricerca più recente si è dedicata agli insiemi di atteggiamenti che operano come sistemi coerenti. In particolare su insiemi che hanno oggetti diversi, cui fanno riferimento giudizi valutativi sulla dimensione ‘vero’ o ‘falso’, con ogni singolo oggetto considerato a vari livelli (percezione della persona, decisione, giudizio sociale, ecc.). Ma gli argomenti di maggior attenzione continuano a essere la formazione e il cambiamento degli atteggiamenti.
Per approfondimenti: [7]

5.2 Tecniche di misurazione degli atteggiamenti

5.2.1 Il differenziale semantico

Fonte: [14]
Il differenziale semantico è una delle tecniche più comuni tra quelle utilizzate per misurare il valore connotativo dei concetti: è stata messa a punto da Osgood e colleghi (1957) tenendo presente il ruolo importante che hanno le componenti affettive nel determinare la condotta umana. In sviluppi successivi è stato verificato l’uso del differenziale semantico per rilevare anche aspetti di carattere non affettivo (Capozza, 1977). La logica sottostante all’elaborazione del differenziale semantico è la seguente:
1) la descrizione di un concetto si può collocare in un continuum definibile da una coppia di termini bipolari;
2) molti dei continua su cui variano i significati sono essenzialmente equivalenti (es. buono vs. cattivo, gentile vs. crudele) e quindi possono essere rappresentati da una sola dimensione;
3) si può dunque usare un numero limitato di continua per definire lo spazio semantico all’interno del quale specificare il significato di ogni concetto. Per fare questo ci si serve dell’analisi fattoriale e, estratto un numero limitato di fattori sufficiente a differenziare tra significati dei concetti, si selezionano poi le scale specifiche corrispondenti a tali fattori, ottenendo così un sistema standardizzato di dimensioni descrittive.
La rilevazione mediante il differenziale semantico è molto semplice: si fornisce al soggetto un foglio che riporta una serie di scale, ciascuna delle quali è definita da una coppia di aggettivi opposti separati da una graduatoria settenaria su cui segnare la descrizione relativa a un concetto. La flessibilità del metodo ne ha favorito l’uso in diversi ambiti di ricerca, soprattutto in psicologia sociale dove, insieme ad altre scale (Guttman, Likert, Thurstone), è usato per misurare stereotipi e atteggiamenti (Tajfel-Fraser, 1979, cap. X).

6 Aggressività e violenza nei media

Fonte: [15]
Nessun’altra area della ricerca sulla comunicazione ha suscitato controversie e dibattiti quanto la questione della violenza nei media e i suoi possibili effetti sui minori. Nessun settore è stato così intensamente studiato e in nessun altro settore le conclusioni raggiunte sono state così divergenti e ambigue. In molti Paesi occidentali, e sempre più anche nei Paesi in via di sviluppo, i bambini trascorrono più tempo davanti alla televisione che davanti a un insegnante. È stato calcolato che, per la fine delle scuole superiori, i ragazzi statunitensi hanno guardato non meno di 22.000 ore di televisione e circa 300.000 spot pubblicitari. Dinanzi al continuo aumento del tasso di violenza nei programmi televisivi e nei film, e all’imporsi del crimine come fenomeno comune della vita urbana contemporanea, sia gli educatori sia i dirigenti politici si preoccupano del fatto che l’eccessiva esposizione delle nuove generazioni alla violenza nei media possa renderli aggressivi. Nel testo che segue si dà conto delle principali linee di ricerca centrate, data la loro preponderanza quantitativa e problematica, sull’approccio statunitense.

6.1 Una panoramica storica

L’interesse degli studiosi di comunicazione per gli effetti negativi dei media sui minori non è certo recente. Già negli anni Trenta furono condotte le ricerche che, sotto il nome di Payne Fund Studies, ebbero lo scopo di investigare i possibili effetti negativi esercitati dal cinema sui bambini e sui ragazzi. Ma è con l’avvento della televisione che questo genere di studi è balzato in primo piano. Nel 1961 la pubblicazione del libro – poi rimasto famoso – Television in the lives of our children di Schramm, Lyle e Parker mise in grande evidenza il ruolo determinante che la televisione esercitava nella vita delle giovani generazioni. Sin dagli anni Cinquanta il governo USA si era interessato alla questione della violenza nei media, promuovendo nel 1952 una prima discussione congressuale sull’argomento. Negli anni successivi, il Senato americano, a più riprese, affrontò la questione di un possibile aumento della delinquenza giovanile per effetto di una programmazione televisiva ad alto contenuto di violenza. Tra il 1968 e il 1972 furono istituite tre Commissioni federali con l’obiettivo di studiare il legame tra violenza nei media e comportamenti antisociali. La Commissione nazionale sulle cause e sulla prevenzione della violenza dichiarò, nel 1969, che la violenza in televisione era uno dei massimi fattori scatenanti della violenza nella società. Nel 1970 la seconda Commissione, quella sulla oscenità e sulla pornografia, concluse che la pornografia non portava a comportamenti antisociali. Infine, la Commissione scientifica del Ministero della Sanità sulla televisione e sul comportamento antisociale rese pubblico il suo verdetto nel 1972: la violenza in televisione aumenta i comportamenti aggressivi di un certo tipo di giovani spettatori. Nel 1982 l’Istituto nazionale di igiene mentale (NIMH) pubblicò un rapporto che si spingeva anche più in là di quanto affermato dalla Commissione del Ministero della Sanità. Infatti, mentre quest’ultima sosteneva l’esistenza di un legame causale diretto tra esposizione alla violenza in televisione e comportamenti antisociali da parte degli spettatori giovani, il rapporto NIMH estendeva questa conclusione ai bambini in età prescolare e agli adolescenti, sia maschi che femmine. Inoltre, sottolineava come la violenza in televisione accresce nei più giovani la paura di rimanere vittima di qualche crimine. Altri importanti studi, tra cui quelli del Centro per il controllo delle malattie (1991), dell’Accademia nazionale delle scienze (1993) e dell’Associazione americana di psicologia (1993), hanno raggiunto la medesima conclusione: la violenza in televisione induce il pubblico all’adozione di comportamenti aggressivi. In particolare, il rapporto dell’Associazione americana di psicologia risulta di grande interesse, in quanto sostiene che in quasi quarant’anni di ricerca è stata documentata in maniera più che sufficiente la quasi universale esposizione dei bambini a elevati livelli di violenza nei media, e che i piccoli spettatori più assidui mostrano una maggiore propensione ad adottare comportamenti aggressivi. Nella prima metà degli anni Novanta, spinta da una rinnovata ondata di indignazione pubblica, anche l’industria televisiva ha appoggiato la domanda di nuove leggi che ponessero un limite alla violenza nei programmi. Nel 1994, finanziato con i fondi dell’Associazione nazionale delle televisioni via cavo, è stato lanciato un progetto di ricerca su larga scala, della durata di tre anni, con lo scopo di determinare il livello di violenza nella programmazione televisiva, il cosiddetto National Television Violence Study (NTVS). Questo progetto ha visto la partecipazione di oltre 200 ricercatori di quattro università ed è stato salutato come la ricerca più vasta mai condotta sul contenuto dei messaggi mediali. Si compone di tre parti fondamentali: un’analisi del grado, della natura e del contesto della violenza nei programmi di intrattenimento; uno studio sull’efficacia dei diversi sistemi di monitoraggio e controllo; infine una ricognizione delle varie iniziative televisive anti-violenza. Conclusa la ricerca sono stati pubblicati tre volumi che ne riassumono i risultati.

6.2 Quanta violenza c’è in televisione?

Sebbene anche film popolari come Arma Letale II e Terminator contengano un alto livello di violenza, la maggior parte degli studi si concentra sulla televisione. La prima cosa da determinare è la quantità di violenza effettivamente trasmessa in televisione. Essa può variare a seconda della definizione di violenza che si decide di adottare e del modo in cui la si misura empiricamente. George Gerbner, uno dei pionieri nello studio della violenza nei media, ha definito la violenza come "un’evidente espressione di forza fisica (con o senza uso di armi) contro se stessi o altri che costringe all’azione contro il proprio volere per paura di essere feriti o uccisi, o di ferire o uccidere". Greenberg e i suoi collaboratori (1980) hanno allargato il concetto di violenza identificandola con il comportamento antisociale in genere. Secondo Greenberg, la violenza comprende tutti i comportamenti che producono, volontariamente o meno, dolore fisico e psicologico agli altri. Il NTVS definisce come violenza "qualsiasi chiara rappresentazione dell’uso della forza fisica – o la verosimile minaccia di tale forza – allo scopo di colpire un essere animato o un gruppo di esseri". Questa definizione comprende anche "certe rappresentazioni di effetti fisicamente negativi su un essere animato, o gruppo di esseri, originati da cause violente non visibili". Già nel 1953 Dallas Smythe contò, nella tipica programmazione televisiva settimanale USA, 3.421 atti di violenza. Gerbner e i suoi collaboratori (1979), studiando la violenza in televisione per dodici anni (1967-1978), hanno scoperto che l’80% dei programmi conteneva atti violenti. In particolare, sono stati contati otto episodi di violenza per ogni ora di programmazione. Il team di Gerbner è inoltre giunto alla conclusione che i programmi più violenti sono quelli rivolti ai bambini. Alcuni tipi di personaggi sono di solito più vittime di atti violenti rispetto ad altri: le donne (soprattutto le più giovani e le più anziane), gli stranieri e i membri delle classi sociali più ricche o più povere. Secondo Greenberg, in televisione la violenza verbale è più frequente di quella fisica, del furto e della truffa. In effetti, la violenza verbale appare più vicina alla realtà quotidiana di quanto non lo sia la violenza fisica. Nel corso del NTVS, i ricercatori dell’Università di California, Santa Barbara, hanno monitorato la presenza di violenza in programmi di intrattenimento come le sitcom, i film, i programmi per bambini e i video musicali; quelli dell’Università del Texas, Austin, hanno invece esaminato programmi pseudo-realistici come i rotocalchi, i talk shows, i polizieschi, e i documentari. Le conclusioni raggiunte da questi studiosi sono: – oltre la metà dei programmi della televisione americana (57%) contiene violenza e circa un terzo di questi programmi mostra almeno nove atti di violenza; – raramente gli atti di violenza sono commessi una sola volta: oltre la metà di tutti gli scontri violenti (58%) sono ripetuti più volte; – nel caso di programmi violenti raramente viene segnalata al pubblico la presenza di atti di violenza: la maggior parte di questi avvisi riguarda i film; – nel 25% dei casi di atti violenti è usata un’arma; – chi compie atti violenti rimane impunito in tre quarti di tutte le scene violente; – in meno della metà delle scene di violenza le vittime mostrano di soffrire per gli atti di violenza subiti; – la gravità della violenza è ridimensionata dal fatto che più di un terzo di tutte le scene violente situano la violenza in un contesto umoristico. Dopo aver accuratamente monitorato il livello di violenza contenuto nei programmi televisivi trasmessi nel biennio 1994-1996, gli studiosi hanno concluso che: – l’alta presenza di violenza in televisione non è diminuita né aumentata in maniera significativa dal primo al secondo anno; – i personaggi più popolari continuano a essere quelli che compiono atti di violenza e ciò rende la violenza sempre più attraente; – la maggior parte della violenza televisiva appare priva di conseguenze: il dolore o le sofferenze provate dalle vittime sono raramente rappresentate; – alcune rappresentazioni di violenza, che possono innescare forme di emulazione da parte dei bambini al di sotto dei sette anni, sono contenute proprio nei programmi rivolti a questa fascia di pubblico. I dati sulla violenza in televisione raccolti in altri Paesi sono scarsi. Il Dutch Violence Profile, ad esempio, dopo aver esaminato quattro settimane di programmazione televisiva trasmessa prima e durante la prima serata da dieci emittenti olandesi, ha concluso che nel complesso la televisione olandese è meno violenta di quella americana. Risultati simili sono stati raggiunti in Svezia.

6.3 Gli effetti sui telespettatori: i risultati della ricerca

Nonostante le critiche, gli oltre 3000 studi condotti solo negli USA in questo settore hanno dimostrato che la violenza nei media, soprattutto quella in televisione, provoca effetti negativi sul pubblico più giovane. Esaminando più di tre decadi di ricerche, possiamo concludere che la violenza in televisione produce fondamentalmente tre tipi di effetti: 1) aumento dell’aggressività attraverso un processo di apprendimento e imitazione; 2) aumento dell’insensibilità alla violenza in genere (effetto desensibilizzante); 3) aumento della paura di rimanere vittima di atti di violenza. Sono state avanzate tre diverse teorie per spiegare, in corrispondenza dei suddetti effetti, come si verifica il processo di induzione e imitazione. a) La teoria dell’apprendimento sociale, elaborata da Bandura (1963), sostiene che i modelli dei mass media indicano al pubblico quali comportamenti adottare e quali non adottare. In altre parole, questi modelli suggeriscono quali comportamenti saranno ricompensati e quali puniti. Molti studi sperimentali condotti su bambini e adulti hanno dimostrato che la visione di un modello di comportamento aggressivo incoraggia l’adozione di un comportamento aggressivo. Eron e Huesmann (1986) affermano che i bambini imparano che l’aggressione è il modo di risolvere i problemi tipico dei giovani e questa idea è difficile che cambi con il passare degli anni. In uno studio longitudinale condotto per ventidue anni, alcuni ricercatori hanno scoperto che esiste una relazione tra l’esposizione abituale dei bambini alla violenza televisiva e il crimine adulto. Questi studiosi suggeriscono che approssimativamente il 10% di variazione riscontrata nei comportamenti criminali più recenti è dovuto a una precedente esposizione alla violenza televisiva. b) Altre ricerche hanno dimostrato che la visione prolungata della violenza può indurre nel pubblico un aumento dell’insensibilità alla violenza nella vita reale e nei confronti delle vittime. Anche se in un primo momento gli spettatori possono sentirsi toccati dalla violenza nei media, gradualmente vi si abituano sino a perdere ogni sensibilità nei suoi riguardi. Di conseguenza, possono sentirsi meno infastiditi dalla violenza ed essere meno disposti a prendere le parti delle vittime. c) La terza teoria, proposta da Gerbner, Gross, Signorielli e Morgan (1976), sostiene che gli spettatori più assidui diventano più diffidenti e paurosi. Essi cominciano a modellare la loro percezione della realtà sociale secondo quanto vedono in televisione. Pertanto, tendono a vedere il mondo come un luogo pericoloso e dominato dal crimine e a vivere con la costante paura di rimanere vittime di una qualche violenza. A questo timore si aggiunge anche una profonda diffidenza negli altri (Cultivation Theory). Nel tentativo di identificare gli effetti della violenza nei media, non bisogna però tralasciare il fatto che non tutte le rappresentazioni della violenza comportano gli stessi rischi. Vi sono infatti delle circostanze contestuali che accrescono la probabilità che le scene violente possano produrre uno dei tre tipi di effetti citati. Secondo Comstock e Paik (1991) ci sono tre aspetti della rappresentazione che rendono possibile prevedere se vi saranno effetti negativi o meno: 1) il grado di efficacia e successo della violenza rappresentata; 2) il livello di giustificazione della violenza; 3) il grado di pertinenza della violenza agli occhi del pubblico. Il NTVS, dal canto suo, ha individuato nove fattori contestuali: 1) la natura di chi compie gli atti di violenza; 2) la natura della vittima; 3) le ragioni della violenza; 4) la presenza di armi; 5) il grado di efferatezza nel rappresentare la violenza; 6) il grado di realismo; 7) se la violenza viene punita o meno; 8) le conseguenze della violenza; 9) se la violenza è legata a elementi di umorismo.

6.4 La violenza nei media e l’intervento delle autorità pubbliche

La violenza nei media, con la conseguente contestazione da parte dei cittadini, è una tematica che sarà sempre oggetto di discussione. Per quanto genitori ed educatori siano preoccupati dai possibili effetti negativi dell’eccessiva violenza nei media, non è facile affrontare questo problema senza subire l’accusa che si interferisce con alcuni diritti fondamentali come la libertà di espressione e l’integrità delle opere d’arte o i principi di onestà e realismo. I tre principali protagonisti di questo dibattito, e cioè il governo, i media e il pubblico, dovrebbero collaborare per trovare una soluzione accettabile per tutti. In molti Paesi, i media hanno adottato codici di autoregolamentazione che non sempre funzionano. Infatti la grande competizione esistente tra i media commerciali di oggi li costringe a sfidare continuamente le regole autoimposte per poter attirare un pubblico sempre più vasto. In alcuni Paesi, come gli USA, associazioni di cittadini si sono impegnate a monitorare la violenza in televisione e a costringere le emittenti a essere più attente alle istanze dei genitori e degli educatori. Grazie ai loro sforzi, le stazioni televisive sono oggi più impegnate a fornire una programmazione per ragazzi di alta qualità educativa, se non altro, per non incorrere nelle ammonizione della FCC (Federal Communications Commission).

Riferimenti bibliografici

[1] Thomas PURAYIDATHIL, Teorie Psicologiche della Comunicazione, http://www.lacomunicazione.it/voce/teorie-psicologiche-della-comunicazione/

[2] M. Britto BERCHMANS, Uses and gratifications theory, http://www.lacomunicazione.it/voce/uses-and-gratifications-theory/

[3] M. Britto BERCHMANS, Agenda setting, http://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=24

[4] Mario COMOGLIO, Attenzione, http://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=83

[5] Franco LEVER, Pasquale FINIZIO, Dissonanza cognitiva, http://www.lacomunicazione.it/voce/dissonanza-cognitiva/

[6] Carlo GAGLIARDI, Hovland Carl, http://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=646

[7] Mario COMOGLIO, Atteggiamento, http://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=82

[8] Dino GIOVANNINI, Carlo CASTELLI e Milena CORRIZZATO, Università degli Studi di Trento, Approccio bimodale o unimodale allo studio dei processi di comunicazione persuasiva?, http://siba-ese.unisalento.it/index.php/psychofenia/article/viewFile/i17201632vIIIn4-5p171/2982

[9] Francesco GALGANI, Teoria dell’obbligatorietà della connessione in mobilità, https://www.informatica-libera.net/content/teoria-obbligatorieta-connessione-mobilita-di-francesco-galgani

[10] Franco LEVER, Cellulare (Telefono), http://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=217

[11] anonimo, Gli esperimenti Asch e Milgram e il condizionamento sociale, http://leganerd.com/2012/05/04/gli-esperimenti-asch-e-milgram-e-il-condizionamento-sociale/

[12] anonimo, L’influenza minoritaria - Psicologia Sociale 2011, https://psicosociale2011edu.wordpress.com/2011/11/17/linfluenza-minoritaria/

[13] Adriano ZANACCHI, Pubblicità, http://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=1009

[14] Cinzia MESSANA, Differenziale semantico, http://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=404

[15] M. Britto BERCHMANS, Violenza nei media, http://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=1339