Messaggio ai disoccuppati, ai poveri, agli esclusi e ai bisognosi
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Tante voci e ricerche ufficiali ci stanno avvisando che la sempre più larga adozione dell'intelligenza artificiale sta aumentando e aumenterà sempre di più la disoccupazione, la miseria e l'esclusione sociale. L'intelligenza artificiale sta accentuando la concentrazione di ricchezza nelle mani di poche aziende e individui. Guardiamoci attorno, perché ovunque possiamo vedere miseria e degrado, materiale e morale, a condizione di avere occhi per vedere, mente per comprendere e cuore per sentire.
E' dal secolo scorso che sappiamo che prima o poi l'intelligenza artificiale ci avrebbe sostituiti in molti lavori, creando problemi su problemi. Tale consapevolezza si è accentuata negli ultimi anni, prima ancora dell'avvento di ChatGPT. Poi, quando ChatGPT è stato reso noto al mondo intero, il grande entusiasmo ci ha fatto dimenticare la schiavitù dell'essere umano nei confronti dei suoi artefatti tecnologici. E' così da millenni, da sempre. Ogni nuova tecnologia crea entusiasmo, dipendenza, adesione fideistica, seduzione, ma ben poche sono le voci critiche.
Già adesso molti lavori stanno venendo cancellati dall'intelligenza artificiale. Ma alla fine il vero problema non sono le macchine, ma la fiducia che noi riponiamo in esse. Maggiore è la fiducia nella tecnologia, e minore è quella in noi stessi e nelle altre persone. La tecnologia non potrà mai darci ciò di cui abbiamo bisogno, cioè affetto e amore, né spiegare o risolvere i misteri della nascita e della morte. Nessuna intelligenza artificiale potrà dirci perché esistiamo o che cosa siamo venuti a fare in questo mondo. Le risposte a queste domande non sono oggetto computazionale di algoritmi, non sono calcolabili tramite neuroni artificiali, né afferrabili con i nostri strumenti cognitivi ordinari. Possiamo avvicinarci ad esse solo con una fede capace di penetrare l'ineffabile.
Tutto ciò accade mentre il mondo è impegnato in grandi guerre, in grandi orrori che proseguono le tragedie e le logiche del secolo scorso, con il desiderio indotto dall'esterno di schierarci da una parte o dall'altra. Ma chi non riesce ad avere compassione per tutti, vittime e carnefici, soffre dell'incapacità appresa di amare, quella stessa incapacità che divide il mondo in buoni e cattivi. In questo scenario, tante persone stanno aspettando l'Apocalisse come liberazione dalla miseria e dalla sofferenza incessante, e non si vergognano a dirlo, augurandosi quanto prima un vero conflitto nucleare. Ma se anche accadesse il peggiore dei cataclismi, dopo staremmo meglio?
In questa valle di lacrime e di tenebre, c'è comunque una speranza. Alla fine, forse, riusciranno a sopravvivere con dignità coloro che hanno una vera passione per la vita, coloro che raramente danno troppo spazio alle paure e benché mai al farsi ricattare. Quando sarà il momento, costoro saranno i più adatti per andare incontro, senza timori, alla pesatura del cuore nel tribunale di Anubis. Infatti, chi è creativo, appassionato e coraggioso, chi non si lascia trattare facilmente come un burattino manovrato dalle psicopatie e dalle perversioni altrui, saprà trovare la propria strada. La fede e il coraggio che emergono da un cuore pulito e leggero ci permettono di affrontare le avversità, comprese miseria, disoccupazione e malattia.
Tutto è temporaneo, tutto è impermanente. Molti lavori sono in crisi, ma nessuna crisi è per sempre, tutto si trasforma.
Sospesa sopra la reggia del dio Indra, simbolo delle forze naturali che nutrono e proteggono la vita, c'è una vastissima rete. A ognuno dei suoi nodi è legato un gioiello. Ogni gioiello riflette in sé l’immagine di tutti gli altri, rendendo la rete meravigliosamente luminosa. Ciascuno di noi è uno di questi gioielli.
Con l'augurio di fede e coraggio,
25 ottobre 2024
Noi povere creature fragili
Da tempo siamo consapevoli del periodo terminale e apocalittico dell’umanità e di tutte le creature.
Ormai abbiamo sostituito le vane speranze di poter far qualcosa con l’accettazione della sofferenza per quello che è. Il primo passo per pacificare la mente è accettare la sofferenza, senza opporsi allo svolgimento della vita. Il secondo passo è meditare sul fatto che tutto è impermamente, fragile, destinato a estinguersi, esattamente come noi. Tutto è un dono da apprezzare, perché poi non ci sarà più.
Forse, come persone e come popoli, ci ritroviamo esattamente nella situazione in cui ci troviamo perché è di qui che “dobbiamo” passare.
Tutto ciò che ha inizio ha anche fine, come i nostri respiri. E ogni cosa esiste perché esiste la sua opposta: l’inspirazione esiste perché esiste l’espirazione, e viceversa. Nulla esiste di per sé e nulla rimane com’è.
E’ tutto un grande mistero in cui gli stessi concetti di esistenza e di non esistenza perdono di significato.
Cos’è reale? Ciò che crediamo tale, o qualcos’altro?
La sofferenza c’è, perché vita e sofferenza vanno insieme. Come già ho scritto in una recente riflessione, siamo fragili carte di un castello di carte posato su un tavolo traballante, pronte a cadere. Ma finché resisteremo, nel nostro equilibrio delicato e precario, possiamo provare a fare qualcosa di buono per quel che a ciascuno di noi è concesso. E se neanche qualcosina c'è concesso, non rimane che "amare" nel senso più grande del termine.
(21 ottobre 2024)
Vedere l'invisibile: un viaggio dalla scacchiera di Adelson alla Bhagavad Gita
L'illusione dell'ombra nella scacchiera di Adelson è un'affascinante dimostrazione di come i nostri sensi possano ingannarci. In questa illusione ottica, due quadrati che appaiono di colori diversi, a causa dell'ombra proiettata su una scacchiera, sono in realtà dello stesso colore. Il nostro cervello, influenzato dalle ombre e dai contrasti circostanti, interpreta erroneamente le informazioni visive, portandoci a percepire una realtà distorta. Ecco una dimostrazione pratica, a cura di brusspup:
Questo fenomeno dimostra come la nostra percezione del mondo sia facilmente ingannevole. Spesso accettiamo ciò che vediamo senza mettere in discussione la sua veridicità, rimanendo intrappolati nel nostro modo consueto di osservare le cose. Solo quando scegliamo di mettere in dubbio le nostre percezioni e il modo ordinario di intendere la vita, possiamo iniziare a scoprire una realtà diversa.
Come è scritto nella *Bhagavad Gita*, capitolo 2, verso 69:
"या निशा सर्वभूतानां तस्यां जागर्ति संयमी |
यस्यां जाग्रति भूतानि सा निशा पश्यतो मुने: ||"
Per comprendere appieno questo verso, procediamo passo per passo.
Traslitterazione:
Yā niśā sarvabhūtānāṁ tasyāṁ jāgarti saṁyamī |
Yasyāṁ jāgrati bhūtāni sā niśā paśyato muneḥ ||
Divisione delle parole:
Yā → ciò che
niśā → notte
sarva-bhūtānām → di tutti gli esseri
tasyām → in quella
jāgarti → è sveglia
saṁyamī → la persona disciplinata
Yasyām → in cui
jāgrati → sono svegli
bhūtāni → gli esseri
sā → quella
niśā → notte
paśyataḥ → per il veggente, colui che vede
muneḥ → del saggio
Ricostruzione del significato complessivo:
"Ciò che è notte per tutti gli esseri, in quella è sveglia la persona disciplinata; ciò in cui gli esseri sono svegli, quella è notte per il saggio che vede."
Questo verso ci insegna che la realtà è percepita diversamente da chi ha raggiunto una profonda comprensione. Mentre la maggior parte delle persone è "addormentata" rispetto a certe verità, il saggio rimane vigile e vede oltre le apparenze. Allo stesso modo, ciò che è ovvio per gli altri può essere illusorio per colui che ha occhi per vedere veramente. Questa riflessione ci invita a superare i nostri limiti percettivi e a osservare il mondo con una consapevolezza rinnovata.
Proviamo ad approfondire il significato di saṁyamī, fin qui tradotto come "persona disciplinata":
- saṁ - un prefisso che significa "insieme", "completamente", "perfettamente"
- yamī - derivato dalla radice "yam", che significa "controllare", "disciplinare", "restrizione"
Nel verso citato, saṁyamī si riferisce a una persona che ha raggiunto un alto grado di autocontrollo e disciplina interiore. Questa persona è in grado di:
- Controllare i sensi → Non è sopraffatta dalle percezioni sensoriali o dalle attrazioni mondane.
- Dominare la mente → Ha una mente stabile, non agitata da pensieri erranti o emozioni turbolente.
- Raggiungere la consapevolezza superiore → È sveglia alle realtà spirituali che sono generalmente nascoste o ignorate dalla maggior parte delle persone.
Ciò che è importante e reale per il saṁyamī può sembrare insignificante o inesistente per gli altri, e viceversa.
Un saṁyamī non è schiavo dei desideri o delle avversioni, mantiene l'equilibrio mentale in situazioni favorevoli e sfavorevoli. Segue principi morali elevati. Pratica virtù come la non-violenza, la veridicità e la compassione.
Il saṁyamī riconosce le illusioni, comprende che ciò che appare reale potrebbe essere illusorio e viceversa.
(19 ottobre 2024)
Castelli di carte
Cosa sono le nostre vite, se non fragili carte di un castello improvvisato, in bilico su un tavolo traballante? E cosa sono le nostre idee, se non carte ancor più precarie, poggiate sul tavolo del linguaggio, delle credenze e dei bisogni?
Come nessuna carta può reggersi da sola, così nessuna idea può esistere senza il sostegno di altre. Anche l'idea più bella, geniale o seduttiva è nulla se non sorretta da altre idee, tutte altrettanto fragili, tutte di per sé inesistenti. Così è per le nostre vite e per le nostre illusioni.
Forse, più che chiederci se un'idea sia buona, giusta o corretta, dovremmo domandarci perché l'abbiamo concepita. Cercare le vere motivazioni ci rivelerà qualcosa di profondo su noi stessi e sulle nostre debolezze.
Prendiamo, ad esempio, il concetto di karma, che per molti di noi è un pilastro fondamentale. Ma non è forse la nostra risposta al bisogno di una giustizia e di una meritocrazia che la vita quotidiana, troppo spesso, ci nega? Non è forse un modo per dare senso al caos, all'ingiustizia, alla crudeltà e alle barbarie della vita?
E Dio? Perché abbiamo creato l'idea di Dio? Forse perché sappiamo di essere anime perse, smarrite nella ricerca di un significato dell'esistenza?
Dietro ogni idea, c'è sempre un motivo. E più le idee sono grandi, grandiose o universali, più possono rivelare le nostre miserie interiori.
Il discorso che propongo trascende la dicotomia tra verità e falsità, poiché, da questa prospettiva, la verità è inafferrabile, svanendo nel momento stesso in cui pare d'averla scorta. Eppure, avere fede resta qualcosa di prezioso, forse l'unica cosa che ci rimane quando accettiamo l'insondabilità del reale.
Siamo carte miracolosamente in equilibrio su un tavolo traballante. Quanto durerà questo equilibrio? Durerà quel che durerà, cioè poco.
(17 ottobre 2024)
Perché la tecnica ci piace più della natura?
L'essere umano, creatura fragile e consapevole della propria finitezza, sviluppa un'attrazione profonda per i propri manufatti tecnologici. Essi sono visti come esempi di perfezione, bellezza e desiderabilità, tanto che, spesso, vorremmo essere come loro, cioè immutabili, esenti dal dolore e dalle imperfezioni che caratterizzano la nostra condizione. Come specie vivente siamo particolarmente inclini, rispetto alle altre creature, a cercare rifugio nell'artificiale e a preferirlo al naturale. Anzi, siamo l'unica forma di vita terrestre ad avere questa tendenza. Indubbiamente questo fenomeno è alimentato dalla natura della nostra mente, che rispetto agli altri primati è l'unica ad avere interesse per il pensiero simbolico, che è alla base del linguaggio e del pensiero astratto. Ma dietro questo comportamento così innaturale di prendere rifugio nell'artificiale c'è molto altro.
Il problema risiede nella natura stessa della nostra esistenza, che ci appare fondamentalmente misera e imperfetta. Siamo esseri nati senza saperne il perché, tra sangue, urina e talvolta feci, come qualsiasi altro mammifero. O meglio, a questo "perché" diamo tante risposte più o meno consolatorie, che hanno a che fare con il karma, con Dio, con il caso, con il caos, con l'amore, con la reincarnazione, con la necessità o con la scelta volontaria, con la sola biologia o con il nulla cosmico, ma, a prescindere dalle tante possibili spiegazioni tra loro alternative, la nostra venuta al mondo è sporca e dolorosa, e così è la nostra fine, destinati a tornare alla terra, a decomporci nel putridume. Tra l'inizio e la fine, siamo soggetti a innumerevoli malattie, sofferenze e problemi, e nessuno di noi, che sia re o suddito, può sfuggire a questa realtà. Siamo tutti ugualmente esposti alla crudezza della vita.
La tecnologia, in questo senso, diventa un rifugio. La sua presenza ci circonda e ci rassicura, offrendoci l'illusione di poter sfuggire, almeno temporaneamente, alla brutalità della nostra condizione. Il prodotto tecnologico, essendo non-vivo, è un ideale, una perfezione cristallizzata, esente dalle degenerazioni che affliggono la carne. Non nasce, non invecchia, non si ammala, non muore, permane così com'è, sfuggendo al tempo e alla decadenza. E in questa sua imperturbabilità, troviamo una rassicurazione quasi religiosa.
Non è forse vero che, fin dall'alba dei tempi, abbiamo cercato di proiettare nell'ideale divino queste stesse caratteristiche? L'eternità, l'incorruttibilità, l'infallibilità sono attributi che, nella nostra immaginazione, abbiamo sempre attribuito alle divinità, e in fondo, la tecnologia non è che una nuova forma di divinità laica. In un mondo sempre più secolarizzato, ciò che un tempo cercavamo nel cielo oggi lo troviamo nei nostri dispositivi, nei nostri sistemi intelligenti, nelle nostre macchine.
Un esempio evidente è l'intelligenza artificiale. La sua (apparente?) capacità di elaborare informazioni, risolvere problemi e migliorare costantemente se stessa senza mai invecchiare o ammalarsi, esistendo in un non-luogo (quello delle idee) e in un non-tempo (come qualsiasi altro software), la rende simile a un ideale platonico: pura forma, pura funzionalità. Il nostro pensiero simbolico, precedentemente accennato e unico fra le creature terrestri, ci suggerisce, se non addirittura ci "obbliga a credere", che il mondo materiale non sia la vera realtà, ma solo una copia imperfetta di una realtà superiore.
Una volta questa realtà superiore era proiettata solo nella vita ultraterrena, come esemplificato da questo passo del Corano: «Questa vita terrena non è altro che gioco e trastullo. La dimora ultima è la [vera] vita, se solo lo sapessero!» (Sura 29, Versetto 64). Pensieri simili si trovano in tutte le religioni e filosofie antiche. Tutti i mistici cercano di fondersi con questa realtà superiore e molte forme di meditazione fanno altrettanto. Oggi, tuttavia, noi esseri comuni, confusi e immersi nei problemi, siamo persuasi e illusi di vedere un riflesso di questa realtà superiore nella tecnologia.
Ma non è solo una questione di intelligenza artificiale. La stessa fascinazione vale per le opere d'arte, le costruzioni architettoniche, i macchinari, le poesie. Ogni creazione umana, che sia una macchina, un dipinto, un romanzo, una musica o una voce registrata è una sfida lanciata all'impermanenza e alla morte. Ciò vale persino per i primi disegni (scarabocchi?) di un bambino, che chi li osserverà con amore vedrà pari a capolavori. Con ogni nostro prodotto creativo cerchiamo di fissare un istante, di fermare il tempo, di catturare un momento di bellezza che non sfugga alla corruzione e alla dissoluzione.
In questo senso, la tecnica e l'arte si uniscono in un medesimo progetto: offrirci un'illusione di eternità. Ma c'è una sottile ironia in tutto questo. Pur creando oggetti che sembrano liberarci dalle catene della nostra mortalità, in realtà non facciamo altro che riaffermare la nostra condizione. La nostra adorazione per la tecnologia e l'arte rivela, alla fine, una profonda nostalgia, ovvero il desiderio di un mondo che non sia soggetto alle leggi della biologia, un mondo dove non si nasca e non si muoia, dove il dolore e la sofferenza siano assenti. È un sogno di eternità, di permanenza, di astrazione e di purezza che (per fortuna?) resterà sempre confinato al regno delle idee e delle speculazioni fantasiose di altri mondi, mentre la realtà, quella della carne e della natura, continuerà a mostrarci la sua indifferenza alle nostre illusioni, con la sua durezza, con il suo corso ineluttabile di piccole gioie e grandi tragedie. E' possibile che l'attrazione per mondi e creature a noi sconosciuti e alieni, o per enti puramente spirituali, nasca proprio dalla speranza, cioè dall'illusione, che altrove tutta questa sofferenza non ci sia o che sia stata risolta.
A ben vedere, però, se anche dessimo per certo l'Aldilà, popolato dalle anime dei nostri cari defunti, da angeli, da demoni, e da innumerevoli tipi di creature che neanche immaginiamo e che potrebbero provenire da altri mondi o creazioni, perché mai dovremmo pensare che non soffrano come noi o più di noi? Giusto per fare un esempio e non parlare solo di teorie, basterebbe notare che chi pratica i cosidetti "viaggi astrali", detti anche "Out of Body Experience" (OBE), riferisce scene e situazioni che sono simili a quelle della vita quotidiana terrestre, incluso il mangiare, socializzare, lavorare o esplorare ambienti familiari. C'è anche chi riferisce di aggressioni, violenze e di eventi terrificanti. Quindi sembrerebbe che l'Aldilà non sia così diverso dall'Aldiqua. Potrebbe non esserci nessun rifugio dalla sofferenza, né di qua, né di là.
E così, nel frattempo, in attesa di morire, ci aggrappiamo ai nostri manufatti, sperando di trovare in essi una risposta, un conforto, un modo per trascendere la nostra condizione. Ma forse, nel farlo, stiamo solo scambiando la verità per un'illusione di eternità, senza mai affrontare davvero la nostra finitudine.
A questi motivi di fascinazione della tecnologia, possiamo aggiungere la sua incorruttibilità morale, in quanto non soggetta alle debolezze, tentazioni e perversioni di chi, avendo coscienza, anima e carne, può scivolare nelle peggiori bassezze di cui l'essere umano ha grande e impareggiabile esperienza. In questo senso, un'intelligenza artificiale non aggredibile dalle suggestioni del diavolo sembra più divina e più suggestiva della resistenza di Gesù alle tentazioni di Satana durante i quaranta giorni di digiuno nel deserto. Anzi, a dirla tutta, mentre è raro che qualcuno prenda il digiuno e la resistenza alle tentazioni come modello di vita, e ancor meno probabile che ambisca a finire in croce, è molto più verosimile che tante anime sofferenti sognino di potersi anche solo un po' avvicinare alla "grandezza" (?) dei nostri artefatti tecnologici, come ChatGPT e altri. Da qui nasce l'ideale del transumanesimo e la sua ambizione di trasformare radicalmente la natura umana per il tramite dell'ibridazione con la macchina. L'impianto di dispositivi elettronici nel cervello umano (BCI, Brain-Computer Interface), come già stanno facendo Neuralink, Synchron, Blackrock Neurotech, CereGate, Kernel, Paradromics, BrainCo e altre aziende è solo l'inizio.
Forse l'unica via per superare questo grande inganno, questa nostra autodistruzione motivata dalla preferenza di ciò che è morto (la tecnologia) rispetto a ciò che è vivo (la natura), sta nell'accettare la miseria e lo schifo delle nostre vite per quello che è, con la consapevolezza che quello che c'è di bello è proprio all'interno dei limiti delle nostre deboli esistenze e dei nostri deboli sentimenti. Oltre quei limiti, non c'è nulla, se non la seduzione di ciò che non c'è e che mai potrà esserci.
Anche la ricerca della felicità, ammesso che essa possa avere qualche significato nel piano infernale dell'esistenza in cui, come genere umano, ci ritroviamo, ha senso soltanto entro tali limiti, oltre i quali ci saranno soltanto disperazione e stridore di denti, a causa della nostra non-volontà di accettare la vita per quello che è. Se ponessimo fine alla nostra cruenta e inutile guerra contro la natura e i suoi limiti, forse saremmo già felici.
Oserei dire che la felicità inizia con l'accettazione della sofferenza e delle sue molteplici forme, malattie e morte comprese. Del resto, i saggi e i santi non hanno mai rifiutato i dolori fisici ed emotivi. Ne abbiamo un'infinità di esempi, per chi li vuol vedere. Le loro vite sembrano creare una sovrapposizione tra le parole "felicità" e "fede", ma le parole sono troppo limitate e solo l'esperienza vissuta è maestra.
Stiamo attenti alle nostre illusioni e alle sofferenze inutili che ne derivano.
(10 ottobre 2024)
Il concetto di Sé nel buddismo e di Anima nella filosofia occidentale
L'idea di un "Sé" o di un'"Anima" è centrale nelle riflessioni filosofiche e spirituali sia dell'Oriente che dell'Occidente. Nel Buddismo, il concetto di Anatta (Pali) o Anatman (Sanscrito), traducibile come "non-sé", sfida l'idea di un'entità permanente, mentre la filosofia occidentale ha spesso sostenuto l'esistenza di un'anima immortale e individuale.
Il Sé nel Buddismo
Secondo gli insegnamenti buddisti, ciò che percepiamo come "sé" è in realtà un insieme di fenomeni in continua evoluzione.
Il Budda disse: “Ho insegnato una cosa e una sola: la sofferenza e la fine della sofferenza”. I suoi insegnamenti sull'anātman sono improntati su questa linea. Nel "Anattalakkhaṇa Sutta" (secondo discorso pubblico del Budda dopo la sua illuminazione), egli affermò:
"Tutti i fenomeni sono privi di un sé; quando ciò viene compreso con saggezza, allora si abbandona la sofferenza."
All'epoca del Budda, la ricerca spirituale era in gran parte vista come la ricerca dell'identificazione e della liberazione del vero Sé di una persona. Tale entità era considerata la natura interiore permanente di una persona, la fonte della vera felicità e il “controllore interiore” autonomo delle azioni, degli elementi interiori e delle facoltà di una persona. Dovrebbe anche avere il pieno controllo di se stesso. Nel brahmanesimo, questo ātman era visto come un Sé universale identico a Brahman, mentre nel giainismo, ad esempio, era visto come il “principio-vita” individuale (jīva). Il Budda sosteneva che tutto ciò che è soggetto al cambiamento, tutto ciò che è coinvolto nella disarmonia del dolore mentale, tutto ciò che non è autonomo e totalmente controllabile dalla volontà propria o del proprietario, non può essere un vero Sé perfetto o ciò che in qualche modo gli appartiene. Inoltre, considerare qualsiasi cosa come tale significa porre le basi per molte sofferenze; infatti, ciò che si considera con affetto il proprio Sé permanente ed essenziale, o il suo possesso sicuro, in realtà cambia in modi indesiderati.
Sebbene le Upaniṣad (testi filosofici e spirituali dell'antica tradizione indiana che esplorano la natura della realtà ultima "Brahman", del sé "Ātman" e della liberazione spirituale "mokṣa") riconoscessero molte cose come non-Sé, ritenevano che si potesse trovare un vero e proprio Sé. Ritenevano che, una volta trovato e riconosciuto come identico a Brahman, la base di tutto, questo avrebbe portato alla liberazione. Nei Sutra buddisti, invece, tutto è visto come non-Sé, persino il Nirvana. Quando questo viene conosciuto, la liberazione - il Nirvana - viene raggiunta attraverso il totale non-attaccamento. Quindi sia le Upaniṣad che i Sutra buddisti vedono molte cose come non-Sé, ma i Sutra lo applicano a tutto.
L'insegnamento sui fenomeni come non-Sé non intende solo minare i concetti brahmanici o giainisti di Sé, ma anche concezioni molto più diffuse e sentimenti radicati di Io. Sentire che, per quanto si cambi nella vita dall'infanzia in poi, una parte essenziale rimane costante e immutata come il “vero io”, significa credere in un Sé permanente. Agire come se solo gli altri morissero e ignorare l'inevitabilità della propria morte significa agire come se si avesse un Sé permanente. Mettere in relazione i fenomeni mentali mutevoli con un Sé sostanziale che li “possiede” - “sono preoccupato ... felice ... arrabbiato” - significa avere un tale concetto di Sé. Costruire un'identità basata sul proprio aspetto corporeo o sulle proprie capacità, o sulle proprie sensibilità, idee e credenze, azioni o intelligenza, ecc., è considerarle parte di un “Io”.
Il Budda accettava molti usi convenzionali della parola “sé”, come “te stesso” e “me stesso”. Questi li considerava semplicemente dei modi convenienti per riferirsi a un particolare insieme di stati mentali e fisici. Ma all'interno di questo sé convenzionale ed empirico, egli insegnava che non si poteva trovare un Sé metafisico permanente, sostanziale e indipendente. Questo è ben spiegato da una delle prime monache, Vajirā: come la parola “carro” è usata per indicare un insieme di oggetti in relazione funzionale, ma non una parte speciale di un carro, così il termine convenzionale “un essere” è propriamente usato per riferirsi ai "pañca skandha" (cinque aggregati) in relazione tra loro. Nessuno di tali skandha è un “essere” o un “Sé”, ma questi sono semplicemente etichette convenzionali usate per indicare l'insieme dei skandha funzionanti.
I cinque skandha, o cinque cumuli o cinque aggregati, sono cinque aggregati psicofisici che, secondo la filosofia buddista, sono alla base dell'affermazione del sé. Essi sono:
- rupa-skandha - aggregato della forma
- vedana-skandha - aggregato delle sensazioni
- saṃjñā-skandha - aggregato di riconoscimento, etichette o idee (percezione, cognizione)
- saṃskāra-skandha - aggregato di formazioni volitive (desideri, volontà e tendenze)
- vijñāna-skandha - aggregato della coscienza
I cinque skandha sono essenzialmente un metodo per comprendere che ogni aspetto della nostra vita è un insieme di esperienze in continua evoluzione. Non esiste un aspetto veramente solido, permanente o unico. Tutto è in movimento. Tutto dipende da molteplici cause e condizioni.
L'insegnamento del non-Sé non nega la continuità del carattere nella vita e, in una certa misura, da una vita all'altra. Ma i tratti persistenti del carattere sono semplicemente dovuti al ripetersi di certi citta, o “atteggiamenti mentali”. Il citta nel suo complesso viene talvolta definito un “sé” (empirico), ma mentre questi tratti caratteriali possono essere duraturi, possono comunque cambiare e cambiano, e quindi sono impermanenti, e quindi “non-Sé”, insostanziali.
Una “persona” è un insieme di processi mentali e fisici in rapida evoluzione e interazione, con modelli caratteriali che si ripresentano nel tempo. Su questi processi si può esercitare un controllo solo parziale: quindi spesso cambiano in modi indesiderati, portando alla sofferenza. Essendo impermanenti (e dolorosi), non possono essere un Sé permanente.
Le diverse scuole buddiste hanno interpretato l'Anatta, cioè il non-Sé, in modi vari. Il Theravada sottolinea la pratica della meditazione e l'analisi dei fenomeni per realizzare l'assenza di un sé. Il Mahayana, invece, attraverso testi come i "Prajñāpāramitā Sutra" (è una raccolta di circa quaranta testi composti in India tra il 100 a.C. e il 600 d.C. circa), introduce il concetto di vacuità (śūnyatā), estendendo l'assenza di essenza intrinseca a tutti i fenomeni. Su questo tema, rimando i miei lettori ad un approfondimento su Nagarjuna, che ho già estesamente trattato in questo blog.
Vale comunque la pena di notare che una parte del buddismo contemporaneo, che potremmo definire "occidentalizzato" e "iper-semplificato", sembra ignorare del tutto questi concetti fondanti del pensiero buddista, aderendo più all'idea dell'Anima, come storicamente intesa in Occidente, che al non-Sé come insegnato dal Budda.
L'Anima nella filosofia Occidentale
In Occidente, l'idea di un'anima immortale ha radici profonde nella filosofia greca e nella tradizione giudaico-cristiana. Platone (428-348 a.C.) sosteneva che l'anima è eterna e preesiste al corpo. Nel dialogo "Fedone", discute l'immortalità dell'anima e la sua capacità di accedere al mondo delle idee pure.
Aristotele (384-322 a.C.), allievo di Platone, offre una visione diversa. Nel suo trattato "De Anima", definisce l'anima come la forma del corpo, il principio che dà vita e funzionalità all'organismo. Per Aristotele, l'anima non può esistere separatamente dal corpo, differenziandosi così dal dualismo platonico.
Con l'avvento del Cristianesimo, l'anima assume una dimensione morale e trascendente. Sant'Agostino (354-430) combina la filosofia platonica con la teologia cristiana, enfatizzando la natura immateriale e immortale dell'anima, destinata al giudizio divino. Nelle "Confessioni", esplora la relazione tra l'anima e Dio.
Nel Medioevo, San Tommaso d'Aquino (1225-1274) integra il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana. Nella "Summa Theologiae", argomenta che l'anima razionale è la forma sostanziale del corpo umano, immortale e capace di esistere indipendentemente dopo la morte.
In epoca moderna, René Descartes (1596-1650) propone il dualismo cartesiano, separando nettamente mente e corpo. Nel "Meditazioni Metafisiche", afferma: «Io penso, dunque sono». Per Descartes, l'anima (mente) è una sostanza distinta dal corpo fisico, capace di esistere indipendentemente.
Confronto tra le due prospettive
Il Buddismo e la filosofia occidentale offrono visioni contrastanti sulla natura del sé o dell'anima. Nel Buddismo, l'assenza di un sé permanente è fondamentale per liberarsi dalla sofferenza. L'attaccamento all'idea di un sé immutabile è visto come illusorio e fonte di dolore.
Al contrario, la filosofia occidentale tradizionale considera l'anima come essenza dell'identità personale, fondamentale per questioni etiche, morali e metafisiche. L'idea di un'anima immortale ha influenzato profondamente concetti come responsabilità morale, vita dopo la morte e salvezza.
Comprendere queste differenze arricchisce il dialogo interculturale e offre strumenti per riflettere sulla nostra identità, sul significato della vita e sul percorso verso la saggezza.
(2 ottobre 2024)
Navigare la dualità della vita
Mentre la Via di Mezzo di Nagarjuna ci offre l’opportunità per camminare tra lo spazio indefinito che si trova tra l’esistenza e la non esistenza, rigettando la fondatezza di entrambe, e al contempo non potendola negare, in una sorta di uscita dalla dualità, il mondo duale in cui siamo immersi va avanti secondo le regole dello scontro tra i poli della dualità. Rifuggire questa realtà significa rifiutare l’esperienza della vita.
Detto in altri termini, la nostra presenza in questo mondo, qualunque ne sia la ragione e missione, ha bisogno di accettare le regole della materialità, dell'apparente separazione duale e dello scontro tra entità interdipendenti se vuole trovarsi nella condizione di poter agire, apprendere e seguire il proprio daimon senza essere annientata troppo presto.
In parole più grezze e brutali, la guerra, cioè il suddetto scontro tra entità interdipendenti, è uno dei fondamenti dell’esistenza umana, sia a livello storico che personale. Sia ben inteso, non è l’unico pilastro esistenziale, altrimenti come specie ci saremmo già estinti pochi attimi dopo la nostra comparsa in questo mondo. La guerra è un principio di base, radicato nella dualità, che non può essere negato, a meno che non si voglia negare la vita stessa su questo piano materiale. Nel qual caso, tanto sarebbe valso non incarnarsi o reincarnarsi, ammesso che di scelta si sia trattato.
A ben vedere, però, anche negli altri e alti piani dell’esistenza è guerra. Se volessimo fare un riferimento alla tradizione ebraica, basterebbe notare che l'arcangelo Mika'el è a guida delle schiere celesti in battaglia. Nella teologia cristiana, gli angeli sono anche guerrieri, nella misura in cui ciò fa parte del loro ruolo di proteggere e servire Dio e i suoi disegni: arcangeli, cherubini, angeli del Signore e schiere celesti sono tutte forze guerriere. Non voglio dilungarmi in esempi di altre tradizioni culturali, che comunque abbondano. In generale, il concetto di battaglia tra il bene e il male, non solo spirituale ma anche armata, è spesso rappresentato da forze soprannaturali o divine pronte a proteggere l’ordine cosmico. I ruoli di “bene” e di “male” possono anche essere più o meno legittimamente invertiti, nel senso che possiamo anche considerarli come etichette arbitrarie di due fazioni in lotta, però la guerra è necessaria, appunto, per l’ordine cosmico. Ciò è sorprendente, ma al contempo dà ragione di essere alle parti in lotta: l’esistenza di una parte in guerra dipende dall’esistenza del suo avversario. Ne segue che la guerra non potrà mai essere vinta o persa in senso definitivo, almeno fino alla fine dei tempi. Cessata la guerra, cesserà anche il cosmo.
Prospettive simili si trovano anche Bhagavadgītā, in cui Krishna (incarnazione del dio Vishnu, colui che preserva l'ordine cosmico) spiega ad Arjuna (il più valoroso tra i guerrieri Pandava) che la sua partecipazione alla guerra è un dovere divino (dharma). Arjuna si trova in un dilemma morale prima della grande battaglia di Kurukshetra, poiché deve affrontare i suoi stessi familiari, amici e maestri sul campo di battaglia. Krishna, però, gli insegna che il suo dovere (dharma) come kṣatriya, ovvero come guerriero, è combattere per la giustizia, senza attaccamento ai risultati delle sue azioni. Però, gli spiega anche che:
«Chi pensa che l'entità vivente sia l'uccisore o che venga uccisa non capisce. Chi è in conoscenza sa che il sé non uccide e non viene ucciso. Per l'anima non c'è mai nascita né morte. Né, essendo stata una volta, cessa di essere. È non nata, eterna, sempre esistente, imperitura e primordiale. Non viene uccisa quando il corpo viene ucciso»
(Bhagavadgītā 2:19-20).
Krishna sottolinea anche che i concetti di bene e male, piacere e dolore sono dualità che l'uomo deve trascendere:
«O figlio di Kunti, il contatto tra i sensi e gli oggetti sensoriali dà luogo a percezioni fugaci di felicità e angoscia. Queste non sono permanenti e vanno e vengono come le stagioni invernali ed estive. O discendente di Bharat, bisogna imparare a tollerarle senza essere disturbati. O Arjuna, il più nobile tra gli uomini, la persona che non è influenzata dalla felicità e dall'angoscia e rimane stabile in entrambe, diventa idonea alla liberazione»
(Bhagavadgītā, 14-15).
La liberazione, o mokṣa, a cui Krishna fa riferimento, è la liberazione dal ciclo di nascita e morte (saṃsāra). Secondo questa prospettiva, ciascuno di noi deve entrare in guerra, ma accettando con equanimità tutto ciò che accade, senza desiderio né avversione.
Tornando alle nostre guerre terrestri, meno mitologiche, meno romanzate, meno “da interpretare spiritualmente” e purtroppo ben più deplorevoli, ripugnanti e pericolose per l’intero ecosistema, sia ben chiaro che non sto facendo un elogio alla violenza, né legittimando le barbarie attuali o del passato. Ne sto soltanto osservando l’ineluttabilità.
Basterebbe notare che per vivere occorre mangiare, cioè uccidere, e ciò vale anche per gli erbivori e per le creature più miti e innocue. La vita stessa è violenta per tutti i limiti, le angosce e le stringenti necessità che ci impone, e non c’è creatura che non conosca o che non abbia conosciuto una sofferenza atroce. I propositi di non-violenza, cari a tradizioni come il buddismo e ancor di più al jainismo, nascono proprio da questa consapevolezza, e mi auguro che nei nostri cuori essi siano sempre benvenuti.
Purtroppo, però, per come è fatto il mondo e per tutti i vincoli e le necessità che ci impone, la non-violenza rimane un ideale non raggiungibile. Prendiamo un’eccezione storica come Gandhi, che è problematica da più punti di vista:
«Gandhi aveva paura di presenze invisibili e del buio, perché il daimon che teneva in mano il suo destino sapeva delle cariche coi manganelli della polizia indiana e dei tentativi di linciaggio in Sudafrica, delle lunghe carcerazioni in celle buie, e sapeva che la morte sarebbe stata la sua costante compagna di strada. Nella sceneggiatura di Gandhi era scritto il suo assassinio»
(James Hillman, Il codice dell’anima, p. 44, ISBN 9788845923630).
La non-violenza di Gandhi non si è forse tradotta in violenza verso se stesso, e violenza subita da coloro che lo seguivano, con spargimenti di sangue e morti? La dedizione totale di Gandhi alla causa della liberazione dell'India ha inevitabilmente avuto ripercussioni sulle persone a lui più vicine, in particolare sulla sua famiglia. Ci si potrebbe dunque chiedere se il suo impegno pubblico, che lo portò a sacrificare molti aspetti essenziali della sua vita privata, possa essere considerato una forma di sofferenza (violenza?) imposta ai suoi cari, soprattutto al figlio Harilal, il quale ebbe una vita tormentata, segnata dall'alcolismo. La realtà è che le situazioni umane sono sempre più intricate di quanto appaia a prima vista, e le conseguenze delle scelte individuali possono essere ambivalenti e contraddittorie.
«Comunque sia, sono passati più di ventidue secoli dalla morte del Tathagata. Le cinque impurità hanno prosperato e ormai da molti anni, in tutte le situazioni, le buone azioni sono diventate estremamente rare. Siamo in un’epoca in cui, se anche una persona fa del bene, compiendo una buona azione ne accumula dieci cattive; in definitiva, facendo un piccolo bene commette un gran male, eppure in cuor suo si vanta di aver praticato un “gran bene”»
(Nichiren Daishonin, Gosho “La recitazione dei capitoli Espedienti e Durata della vita").
Qui Nichiren descrive la complessità morale della nostra epoca: anche se cerchiamo di fare il bene, a causa delle circostanze della vita, dei vincoli, delle necessità, e della corruzione che pervade il mondo, i nostri buoni propositi sono contaminati dal male. Nonostante le buone intenzioni, finiamo inevitabilmente per compiere azioni che sono in qualche modo negative. I vincoli sociali e materiali, e i limiti della nostra stessa natura, rendono impossibile il compimento di un bene puro, non-violenza compresa.
Essendo strutturato in questo modo contraddittorio e caotico il nostro piano materiale, la nostra mente, per evitare di essere sovraccaricata da tale enorme e ingestibile complessità, adotta spesso un pensiero “euristico”, ovvero utilizza scorciatoie mentali per prendere decisioni rapide. Questi processi semplificati, però, ci portano a vedere il mondo attraverso schemi rigidi e polarizzati. Ad esempio, tendiamo a categorizzare le persone e le situazioni in termini di opposti: buono/cattivo, forte/debole, amico/nemico. Questi costrutti, pur essendo in parte funzionali alla nostra sopravvivenza in molte situazioni, sono illusori, riduttivi e fuorvianti, e come cattivi amici ci accompagnano in una lotta continua per primeggiare, perché sentiamo, più o meno inconsciamente, di essere sempre in grave pericolo.
Le anime più evolute intenderanno tale lotta per primeggiare soprattutto a livello interiore, e cercheranno di ripulire la propria anima e il proprio intelletto da tutta la sporcizia spirituale che questo mondo ci getta addosso. Tali anime cercheranno la liberazione dalla paura, dal desiderio e dall’avversione, e faranno il possibile per non lasciarsi domare dagli inganni e della vanagloria. Non si esalteranno nel successo né si avviliranno nei fallimenti, e manterranno un cuore compassionevole e grato.
La maggior parte di noi, però, intenderà la lotta per primeggiare non tanto come l’impegno a domare e a far evolvere la propria mente instabile e sprovveduta, ma come la distruzione del proprio prossimo, fin dove le regole sociali, legali ed economiche lo consentiranno, a meno di non sfociare nella criminalità o nella guerra armata nuda e cruda. Sarà una gara al massacro, in cui si ritroveranno coinvolte anche le anime più pie ed equilibrate, che saranno annientante se non eserciteranno una qualche forma di “potere” da un alto, e se dall’altro non accetteranno il “dominio” del più forte, nel senso di aggressivo e violento. Questa si chiama “guerra”. Ed è guerra dal concepimento, pur per quanto esso sia auspicabilmente il frutto di uno dei massimi atti di amore, fino alla morte. E anche oltre.
Fin qui abbiamo discusso della guerra come connaturata alla vita e del rifiuto della guerra come rifiuto della vita. Può essere molto difficile da accettare, se esplicitato in questi termini così duri. Ciò sembrerebbe in netto contrasto con l'insegnamento di Gesù, che predicava l'amore per i nemici:
«Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi maltrattano e vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro, che è nei cieli, poiché egli fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i malvagi, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Perché, se amate coloro che vi amano, che premio ne avrete? Non fanno altrettanto anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno altrettanto anche i pubblicani? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro, che è nei cieli»
(Matteo 5, 44-48).
In realtà, la tradizione cristiana, in particolare con il Padre della Chiesa Sant'Agostino e il Dottore della Chiesa San Tommaso d'Aquino, ha considerato la guerra come moralmente giustificata in determinate circostanze, considerandola come una “concessione alle imperfezioni del mondo”, cioè un male necessario. In un articolo del 30 aprile 2018 di Disputationes Theologicae (piattaforma accademica e scientifica di stampo cattolico tradizionalista), leggiamo:
«[...] E qui emerge un altro aspetto troppo spesso dimenticato, ovvero il dovere di amare il prossimo fino al punto di dichiarargli guerra. Per il suo bene. Ovvero togliergli la libertà di fare il male impunemente e soprattutto sottrargli quella tranquilla felicità di malfattore, che rafforza la spavalderia degli impuniti e la loro mala volontà, può essere un gesto d’amore. [...]».
Nell'ebraismo esiste il concetto di milkhemet mitzvah (“guerra comandata”). Nell'Islam, la Jihad si riferisce a uno “sforzo” o “lotta” sulla via di Dio e può riguardare sia una lotta spirituale interna (il “grande jihad”) sia una lotta esterna, che può includere il combattimento armato (il “piccolo jihad”). Anche l'induismo riconosce la necessità di combattere in certe situazioni. Buddisti e jainisti rifiutano la guerra come legittima in qualsiasi circostanza, almeno in teoria.
Purtroppo abbiamo dei controesempi storici nel caso dei buddisti. Ad esempio, in Giappone, durante il periodo medievale, alcuni monasteri buddisti (soprattutto quelli della scuola Tendai e della setta buddista guerriera Sohei) avevano veri e propri eserciti monastici. I monaci guerrieri (sohei) divennero noti per il loro coinvolgimento in conflitti armati. Questi monaci partecipavano attivamente a scontri con altre fazioni buddiste o signori feudali. Fu anche per queste ragioni che Nichiren Daishonin, precedentemente citato, sostenne che il Giappone stava affrontando una crisi spirituale e politica a causa dell'abbandono degli insegnamenti buddisti corretti, ma non dilunghiamoci oltre.
La guerra non può essere evitata e la pratica della non-violenza non impedisce agli altri di farci violenza. Lo stesso Gandhi affermò che, sebbene preferisse la non-violenza come principio assoluto, tra la codardia e la violenza, la violenza è da preferirsi:
[...] Credo che nel caso che l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza. [...] E sempre per questo stesso principio mi sono dichiarato favorevole all’addestramento militare di coloro che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il suo onore piuttosto che, in modo codardo, divenisse o rimanesse testimone impotente del proprio disonore. [...]
[...] È difficile che un topo perdoni una gatta mentre viene fatto a pezzi da questa. [...]
(Estratti di “Young India”, rivista settimanale fondata e gestita da Gandhi, 11 agosto 1920. L'articolo completo si intitola "The Doctrine of the Sword", suggerisco di leggerlo nella sua interezza per contestualizzare ed evitare fraintedimenti)
Però, se riconosciamo la natura illusoria del nostro piano materiale, e l’inevitabile fine di ogni cosa che abbia inizio, cosa ne sarà delle nostre guerre, delle nostre conquiste, delle nostre memorie? I nostri corpi, un tempo belli, giovani e capaci di attirare l’attenzione, prima o poi non saranno altro che putridume ripugnante, un covo di malattie, a cui seguiranno morte e decomposizione. Siamo costretti a fare la guerra, ma a quale scopo?
In cosa risiede il senso della nostra esistenza, se non nell’essere parte di una comunità, di qualcosa di più grande del nostro ego?
Se non fossimo protetti dall’altro principio che nella dualità è opposto alla guerra, cioè l’amore, le nostre esistenze semplicemente non sarebbero possibili.
(25 settembre 2024)
In guerra
Il centro del mondo?
Dopo l'ultimo articolo "La verità rende schiavi?", vorrei esplicitare i miei dubbi su quale sia il centro del mondo. Da sempre, in tutti i planisferi che ho visto, l'Europa è al centro e in alto, con l'Italia in una posizione fondamentale. Al tempo della scuola, feci notare ai miei insegnanti che questa rappresentazione mi sembri, allora come oggi, abbastanza forzata e non necessaria.
Ad esempio, se fossi nato nella Corea del Nord, non sarebbe questa il centro del mondo? Vediamo come potrebbe apparirmi:
Tale visione sarebbe tanto corretta quanto quella convenzionale usata nelle scuole italiane, è solo cambiato il punto di osservazione.
Anche limitandoci alla sola Europa, potremmo scegliere di posizionare le nazioni sulla mappa in modo inconsueto, ma altrettanto valido:
Prima di proseguire oltre, vorrei solo aggiungere una piccola nota politica. In questa cartina con la Sicilia in alto, la Russia è correttamente inclusa tra i paesi europei, perché in effetti lo è. Il fatto che il mainstream stia trattando la Russia come se fosse un paese esterno dall'Europa geografica e politica è una falsità finalizzata alla propaganda di guerra. Volendo essere ancora più precisi, il continente geografico di cui facciamo parte si chiama Eurasia, come qui evidenziato nel mappamondo:
Il confine convenzionale negli Urali tra Europa e Asia è solo una costruzione politica fittizia. Non esiste infatti una separazione fisica chiara che possa giustificare la divisione di un'unica massa continentale, l'Eurasia, in due continenti distinti. I monti Urali non sono una barriera naturale significativa, sono montagne relativamente basse e non creano una divisione culturale o ecologica netta. Ma anche accettando tale confine, la Russia fa comunque parte dell'Europa.
Tornando alla nostra ricerca del centro del mondo, qualcuno potrebbe obiettare che invertire il Sud con il Nord, come nella precedente cartina dell'Europa, non terrebbe conto che l'ordinamento convenzionale dei punti cardinali è stato favorito dall'uso generalizzato della bussola magnetica e dal bisogno di avere una convenzione uguale per tutti. La mia risposta è che queste sono argomentazioni molto deboli. In realtà nessun popolo vorrebbe posizionare se stesso ai "confini" del mondo, mettendo al centro altri.
L'alto e il basso, la sinistra e la destra possono essere non soltanto invertiti, ma anche completamente sovvertiti, come in questa proiezione bidimensionale del globo inventata da Buckminster Fuller nel 1946:
A proposito del centro del mondo, qualcuno ha osservato con attenzione il logo delle Nazioni Unite? Suggerisco di notare come appaiono Stati Uniti e Russia:
La nostra percezione geografica è fortemente falsata dalla rappresentazione dei planisferi comunemente utilizzati nelle scuole, che spesso mostrano il mondo in una proiezione di Mercatore. In questa rappresentazione, gli Stati Uniti si trovano a sinistra e la Russia a destra, creando l'impressione che questi due paesi siano molto distanti tra loro. Tuttavia, questa percezione è ingannevole a causa della distorsione delle distanze che caratterizza questo tipo di proiezione cartografica.
In realtà, come è evidente dal logo dell'ONU, gli Stati Uniti e la Russia sono molto più vicini di quanto la maggior parte delle persone immagini, in pratica "si toccano". La distanza minima tra Russia e Stati Uniti è di soli 3,7 chilometri, e si trova nello Stretto di Bering (che è di 82km), tra l'isola Piccola Diomede (che appartiene agli Stati Uniti) e l'isola Grande Diomede (che appartiene alla Russia). Durante l'inverno, lo stretto può congelare parzialmente, rendendo teoricamente possibile camminare da un continente all'altro. Quest'altra cartina dovrebbe rendere molto più evidente la vicinanza geografica tra le due superpotenze:
Questo stretto legame geografico tra i due paesi sottolinea come le distanze percepite siano spesso influenzate più dalla rappresentazione cartografica politicamente finalizzata che dalla realtà geografica.
Tra l'altro, mentre Piccola Diomede segue il fuso orario dell'Alaska (UTC-9 o UTC-8 a seconda dell'ora legale), Grande Diomede segue il fuso orario della Russia (UTC+12). Di conseguenza, si crea una differenza di circa 21 ore tra le due isole. Ciò evidenzia come pure i fusi orari, al pari delle carte geografiche, siano una convenzione artificiale stabilita per facilitare un certo tipo di ordine globale. Lo ripeto: circa 4km di distanza e 21 ore di differenza.
Del resto, non è stata un'idea colonialista ed eurocentrica aver scelto il meridiano di Greenwich come riferimento per tutto il mondo nel 1884 alla Conferenza Internazionale Dei Meridiani? Dal punto di vista di molte nazioni non europee, questa scelta può essere vista come un'imposizione dei valori e delle pratiche europee sul resto del mondo. In questo senso, il sistema dei fusi orari, centrato su Greenwich, riflette non solo una convenienza scientifica e logistica, ma anche l'influenza delle dinamiche di potere globali di quel tempo. Fra l'altro, fu in quella conferenza che l'inizio di ogni giorno fu fissato alla mezzanotte: anche questa è una convenzione opinabile.
Per concludere questa riflessione sul centro del mondo, che i meridiani, le carte geografiche e la storia hanno finora collocato nell'Europa e più nello specifico nella Gran Bretagna, come del resto è evidente dal fatto che l'inglese è l'unica lingua considerata e imposta come internazionale, vorrei portare l'attenzione su come America Latina, Australia e Africa possano improvvisamente sembrare le zone del mondo più importanti. Basterebbe infatti "correggere" il planisfero per accordarlo al fine politico desiderato:
Proviamo a cercare l'Italia... c'è, ma non è così centrale come ci insegnano a scuola... anzi, le stesse terre emerse non sono più così centrali. Una tale rappresentazione difficilmente piacerà, però è realistica: la superficie terrestre è composta da circa il 29% di terre emerse e il 71% di oceani, anche se generalmente tutte le altre cartine fanno il possibile per non renderlo troppo evidente.
(14 agosto 2024)
La verità rende schiavi?
Se la verità fosse una luce camaleontica inafferrabile proiettata dalla nostra mente, allora saremmo liberi di pensare e di percorrere l’eterna strada della ricerca di un senso della vita e delle cose. Sarebbe un cammino molto interessante senza un punto di arrivo, ma solo con l'inevitabile certezza della trasformazione e della morte. Poi, quel che avverrà durante e dopo la morte, sarà a libera scelta in base al proprio credo e ai propri bisogni. In assenza di qualsiasi verità, saremmo liberi.
Discorso ben diverso se la verità fosse invece un punto luminoso stabile ed esterno, non prodotto dalla nostra mente ma da essa osservabile. Ciò la renderebbe un riferimento che più verrebbe da noi compreso e interiorizzato, e minore spazio di libertà ci lascerebbe. In tale scenario, l’ipotetica comprensione totale della verità coinciderebbe con l’annullamento del pensiero personale, il quale non avrebbe altra scelta se non quella di coincidere con la verità stessa. Nel migliore dei casi potrebbe essere un’esperienza mistica se corrispondesse al superamento del proprio ego, ma è abbastanza raro che ciò accada. L'adesione a verità esterne porta invece solitamente a fenomeni sociali deludenti e mediocri, comuni nel sistema educativo e nel mainstream e, come reazione uguale e contraria, nel web e nei social. Potremmo sintetizzare tali fenomeni in questo modo:
- “Complottismo” come nuova religione → E' il punto di vista di chi crede alle più svariate teorie, alternative o mainstream che siano, in modo acritico e fideistico e senza sentire ragioni di sorta, esibendo un atteggiamento maniacale e paranoico. Per fare un esempio, chi crede nei Santi Vaccini vedendo i non vaccinati come gli untori del 1630 di manzoniana memoria (teoria mainstream), non è molto diverso da chi crede che il governo e la scienza ufficiale siano “sempre” entità malevole che nascondono “sempre” la verità alla popolazione (teoria alternativa dei social). In entrambi i casi della teoria mainstream e della teoria alternativa dei social, si manifesta una sorta di fideismo cieco che porta a interpretare la realtà attraverso il filtro di una narrazione totalizzante, nella quale ogni evento o dato viene piegato per conformarsi alla teoria di base, senza alcuno spirito critico. Questo atteggiamento è caratteristico di una forma di “religiosità” moderna, dove la fede non è più rivolta a divinità trascendenti, ma a costruzioni ideologiche che danno senso e ordine a un mondo percepito come caotico e minaccioso. Il complottismo, in quest’ottica, non è solo una questione di credere o meno a determinate teorie, ma rappresenta un modo di stare al mondo, di definire il bene e il male, e di trovare un'identità in un'epoca di incertezze e rapide trasformazioni.
- “Negazionismo” → E' l'atteggiamento storico-politico che, a fini ideologici e di utilità di parte, nega contro ogni evidenza l'accadimento di fenomeni storici o scientifici ben documentati, ma senza portare alcuna documentazione o esperienza empirica di tipo contrario e senza dubitare minimamente del proprio punto di vista. Anche in questo caso riscontriamo il negazionismo sia nelle teorie mainstream che in quelle social. Ad esempio, negare che i vaccini causino aumento della mortalità per tutte le cause, autismo, danni neurologici gravi e altre cause di invalidità permanente è una teoria negazionista del mainstream. Viceversa, negare che le bombe atomiche siano mai state sganciate su Hiroshima e Nagasaki durante la Seconda Guerra Mondiale è una teoria negazionista social. I sostenitori di questa teoria affermano che i resoconti ufficiali riguardanti l'uso delle armi nucleari siano stati esagerati o completamente fabbricati dagli Stati Uniti per intimidire l'Unione Sovietica e il resto del mondo, consolidando la loro posizione di potenza mondiale nel dopoguerra. Secondo loro, le immagini e le testimonianze delle esplosioni atomiche sarebbero state manipolate o falsificate. In generale, mentre il negazionismo del mainstream si basa sulla difesa a oltranza e contro ogni evidenza di interessi di parte, il negazionismo social si basa, come reazione uguale e contraria, su una combinazione di revisionismo storico estremo e sfiducia totale verso le istituzioni governative.
- “Sensazionalismo” → E' la tendenza a divulgare fatti e notizie, per lo più esagerandoli, allo scopo di suscitare un notevole interesse nell'opinione pubblica. In questo caso, l’obiettivo del mainstream e dei social è identico, cioè fare pubblico per guadagnare più soldi. Ciò porta facilmente alla falsificazione o quantomeno ad una distorsione della realtà. Prendiamo come esempio i tumulti di Capitol Hill negli Stati Uniti del 6 gennaio 2021 e quelli avvenuti in Brasile l'8 gennaio 2023. Sono esempi significativi di violenza politica, con morti. Entrambi gli eventi hanno visto sostenitori di ex presidenti, rispettivamente Donald Trump e Jair Bolsonaro, attaccare le istituzioni governative per protestare contro i risultati elettorali, spinti da accuse di frode, fondante o non che siano. Tuttavia, è facile e semplicistico concentrarsi solo sui video di questi tumulti per suscitare reazioni emotive e fare pubblico, senza un'analisi approfondita delle cause, dei retroscena, delle conseguenze e degli interessi di parte che li hanno generati e che da essi ne hanno tratto profitto.
- “Narcisismo” → E' la tendenza sia esteriore, sia l'atteggiamento psicologico interiore, di compiaciuta ed eccessiva ammirazione di se stessi. Anche in questo caso, social e mainstream si equivalgono nell’amplificare il narcisismo, anche se ovviamente cambiano i soggetti. Mentre il mainstream tende ad amplificare il narcisismo di personaggi insulsi e incapaci che fanno comodo alle politiche governative, i social sono costruiti per amplificare il narcisismo di chiunque sia capace di raccattare followers. Preferisco astenermi dal riportare esempi specifici, però possiamo fare una considerazione generale. Le persone manifestano una forma di egoismo profondo di cui di solito non sono consapevoli, con un'evidente concentrazione su se stessi negli scambi interpersonali ed un’incapacità di vedere il mondo dal punto di vista degli altri. E’ l'atteggiamento di chi pone se stesso e la propria problematica al centro di ogni esperienza, trascurando la presenza e gli interessi degli altri.
Detto ciò, sia ben chiaro che i miei dubbi vanno a sistema di pensiero “basato sulla conoscenza della verità”, che solitamente si contrappone ad altre “verità” anch’esse declamate in modo forzato e spesso disturbante. Mi rendo conto che nelle definizioni precedenti ho scelto alcuni esempi molto problematici, e l’ho fatto di proposito per suscitare una riflessione. Sono solo un modo per esternare come questi temi possano apparire da un determinato punto di vista, ma è evidente che ciò che è da ritenersi complottismo o negazionismo può essere descritto con esempi contrapposti ai miei, se il punto di osservazione cambia.
Comunque, tra “dubitare” di un’idea e “affermare il contrario” ce ne corre. Una persona che tendenzialmente “dubiti”, infatti, si lascerebbe molte strade aperte e sarebbe libera di cambiare idea o percorso di vita se lo volesse. Chi vive nelle “certezze”, invece, ne è schiavo.
I miei lettori potrebbero criticarmi per aver messo sullo stesso piano di complottismo, sensazionalismo, negazionismo e, forse, anche di analfabetismo funzionale e di incapacità di deduzioni logiche coerenti sia l’informazione ufficiale, scolastica e accademica, sia quella alternativa dei social e del web. E’ esattamente ciò che sto cercando di esprimere.
Andiamo di più nello specifico per evitare fraintendimenti. Chiunque potrebbe contestarmi che «se “a” fosse maggiore di “b” e “b” fosse maggiore di “c”, come potrei legittimamente dubitare che “a” non sia maggiore di “c”»? Detta così sarebbe infatti una verità che inchioda, una di quelle incontestabili e senza spazio per argomentazioni alternative, ma non è di questo tipo di ragionamenti logico-deduttivi che sto dissertando, anche perché la matematica non è portatrice di verità, ma solo di opportune affermazioni ricavate da assiomi che, per loro natura, hanno un valore che trascende quello della verità o della falsità.
La matematica è estremamente utile e potente se usata con giudizio e senza inganni, ma non è vera, né falsa.
Ad esempio, la matematica dei popoli precolombiani, come quella dei Maya e degli Aztechi, aveva alcuni presupposti e sistemi di numerazione e geometrici diversi da quelli da noi conosciuti. I Maya utilizzavano un sistema vigesimale (basato sul numero 20) anziché il sistema decimale. Anche la loro comprensione della geometria era diversa. Mentre la nostra geometria euclidea si basa su concetti come linee rette e angoli, i Maya e gli Aztechi svilupparono una geometria basata su forme naturali, come le curve e i cicli (cioè pattern ricorrenti o periodici osservati in natura, in particolare quelli legati all'astronomia e al tempo). La loro geometria si rifletteva nei disegni architettonici e urbanistici. I templi e le città erano infatti spesso disegnati in base a principi geometrici che riflettevano l’osservazione dei cicli astronomici e delle forme naturali. Questi strumenti matematici e geometrici erano estremamente utili per le loro esigenze astronomiche, agricole e religiose. Tuttavia, proprio come la nostra, la loro matematica e geometria non erano né vere né false in senso assoluto. Piuttosto, erano sistemi di conoscenza costruiti per rispondere alle specifiche esigenze culturali e pratiche della loro società.
Tutto ciò, tra l'altro, si tira spontamente dietro la domanda del perché questi popoli (erroneamente) considerati primitivi (dai colonialisti occidentali che non hanno esitato a sterminarli) fossero così interessati all'astronomia, visto che potrebbe sembrarci così distante dai problemi quotidiani. Evidentemente la nostra visione del mondo è significativamente diversa da quella che loro hanno avuto, pertanto la nostra non è generalizzabile e risulta alquanto limitata.
Stesso discorso per la fisica e la chimica. Qualcuno ha mai visto un elettrone? No, nessuno ne ha mai visto uno nel senso tradizionale del “vedere”, e ciò è reso impossibile dal fatto che tale particella subatomica ha dimensioni molto al di sotto della lunghezza d'onda della luce visibile. Ne diamo per scontata l’esistenza, e la fisica degli elettroni è estremamente utile e coerente con la nostra matematica e con le altre conoscenze correlate. Ma se avessimo un’altra fisica basata su un modello diverso dell’esistente, sorretta da un altro tipo di matematica, probabilmente avremmo risultati altrettanto utili senza bisogno di teorizzare l’esistenza degli elettroni.
E’ verosimile che altri popoli in altre parti dell’universo possano avere fisiche e matematiche diverse dalle nostre, ma ciò non le renderebbe più vere o più false delle nostre. A livello empirico, per dimostrarne l’esistenza basterebbe porre l'attenzione sul fatto che i velivoli alieni (osservati in tutto il mondo dai militari e dai piloti degli aerei di linea, con testimonianze talvolta molto dettagliate) volano senza propulsione e con accelerazioni impossibili per la fisica a noi conosciuta.
Un altro esempio di tipo storico sono le piramidi, sia in Egitto che in numerosi altri luoghi sparsi in tutto il pianeta: Sudan (Meroe), Messico (Teotihuacan, Chichen Itza, Uxmal), Guatemala (Tikal), Perù (Caral, Pachacamac), Cina (Provincia di Shaanxi), Cambogia (Koh Ker), Bolivia (Tiwanaku) e Iraq (Ur). Queste piramidi sono state costruite con blocchi di pietra impossibili da spostare con le nostre conoscenze e mezzi. Altri esempi analoghi sono le costruzioni in Perù come Machu Picchu, Sacsayhuamán, la Piedra de Sayhuite, le linee di Nazca e Ollantaytambo. Non sto ponendo l’attenzione sul fatto che siano opere umane o aliene (dubbio comunque legittimo), ma sul fatto che dimostrano i nostri limiti di conoscenza e il sicuro uso nei tempi antichi di matematiche e/o di ingegnerie diverse dalle nostre.
Discorsi simili valgono per i reperti archeologici che contraddicono le nostre conoscenze storiche o per le analisi di laboratorio i cui risultati sfuggono alla comprensione ordinaria. Ciò non significa che siano falsi, né possiamo presumere che siano necessariamente veri, possiamo solo affermare di avere dei seri limiti nella conoscenza. A tal proposito, gli "OOPArts" (Out Of Place Artifacts) sono reperti archeologici la cui datazione o collocazione risulta inspiegabile per le nostre conoscenze.
"Archeologia proibita" (Forbidden Archeology) è un libro scritto da Michael A. Cremo e Richard L. Thompson, pubblicato per la prima volta nel 1993. L'opera propone una visione non convenzionale della storia umana, suggerendo che l'uomo moderno potrebbe essere molto più antico (tre milioni di anni fa) di quanto indicato dalla scienza archeologica tradizionale (100.000 anni fa). I siti archeologici che producono tali evidenze, non solo sotto forma di reperti paleontologici, ma anche di manufatti, vengono dettagliatamente descritti e interpretati in questo saggio. Ciò che emerge è che con ogni probabilità non è esistita un'evoluzione del genere umano dall'Australopiteco all'Homo Sapiens, ma che al contrario uomini e ominidi hanno da sempre coesistito sulla Terra e che quindi la teoria evoluzionista della vita sul nostro pianeta, su cui si basano le odierne scienze naturali, non ha alcun fondamento certo. Del resto, la teoria di Darwin è stata fortemente strumentalizzata per fini politici e coloniali, ma l'essere umano è un evidente controesempio di tale teoria, giacché è una specie senza un habitat naturale specifico e senza un adattamento corporeo alla vita in natura in mezzo ai predatori.
Esistono comunque teorie alternative, dove "alternativo" non vuol dire "più vero", significa soltanto avere più strade di ricerca da percorrere. Nel 1969, Roger W. Wescott, allora professore ordinario di antropologia alla Drew University a Madison (New Jersey, Stati Uniti), scosse la comunità accademica con un libro in cui si sosteneva che la nostra evoluzione fosse legata a processi di domesticazione. In quel suo saggio The Divine Animal, lo studioso ipotizzava che antichi colonizzatori del nostro pianeta avessero effettuato pressioni selettive sugli ominidi, guidando nel tempo l'evoluzione umana, sia biologica che culturale. Wescott fece uno studio comparato di molte specie addomesticate, analizzando anomalie e caratteristiche biologico-comportamentali della nostra specie. A distanza di quasi cinquant'anni da quel primo studio, il biologo molecolare Pietro Buffa ha approndito la questione nel libro Resi umani. Da organismi scimmieschi all'ominide pensante. Una storia ancora da scrivere (2018).
Un altro esempio molto intrigante per mettere in dubbio le nostre attuali conoscenze è un caso documentato dal filmmaker Jeremy Corbell nel suo documentario Patient Seventeen. In estrema sintesi, il chirurgo Roger Leir ha rimosso piccoli oggetti dal corpo dei suoi pazienti la cui analisi isotopica ha dimostrato valori diversi da quelli terrestri. Stiamo parlando di oggetti che quindi non possono avere avuto origine nel nostro pianeta. Ma non voglio dilungarmi oltre, né discutere nel merito. E’ solo per dire che se cerchiamo controesempi che pongono interrogativi su ciò che crediamo di sapere, possiamo trovarne un’infinità. E’ però estremamente raro mettersi a cercare qualcosa che metta in dubbio le proprie idee o conoscenze, è molto più semplice farlo per fare polemica e additare gli altri.
Il problema non è studiare un argomento e farsi un’idea propria, il che sarebbe più che auspicabile, ma credere fermamente in un’idea precostituita o insegnata da altri. Ciò può provocare disastri, soprattutto quando quell’idea si presenta con la pretesa di universalità.
Se volessi dubitare che Cristoforo Colombo abbia avuto qualche merito nella conoscenza del continente americano, non sarebbe un grande problema, perché la storia è storicistica e un po’ romanzata. Potrei usare un dubbio del genere per fare una personale ricerca storica. Questo è proprio ciò che ha fatto lo storico Riccardo Magnani, secondo cui il continente oltreoceano era già conosciuto dall’Europa e frequentato ben prima del 12 ottobre 1492. A riprova, ha raccolto diverse mappe, dipinti e testimonianze inequivocabili. Non sto dicendo che lui abbia necessariamente ragione, dico soltanto che più idee e ricerche ci sono e meglio è.
Stesso discorso se mi ponessi la domanda se Napoleone abbia mai messo piede per davvero sull’Isola d’Elba, o se Cristo abbia mai detto una sola frase di quelle contenute nei Vangeli, o se Budda sia mai esistito. Tutti questi non sarebbero problemi. Io infatti sono buddista, ma ho seri dubbi sul fatto che Gautama Siddharta sia mai esistito o, ammettendo la sua esistenza, che i testi buddisti giunti a noi abbiano un qualche fondamento storico. Mi pare più verosimile che in ogni parte del mondo si siano sviluppati filoni di pensiero che, a un certo punto, abbiano sentito l’esigenza di inventarsi divinità o personaggi straordinari per legittimarsi e conferirsi autorità. Con ciò, però, non sminuisco minimamente la saggezza delle tradizioni millenarie, che per me hanno piena dignità.
Anzi, per essere più precisi, il “bisogno” di personaggi storicamente fondati e realmente vissuti come fondatori di determinati religioni è legato più alla ricerca di rassicurazioni interiori per le proprie credenze che alla storia intesa come ricerca e studio. Nell’antichità la questione è stata intesa molto diversamente, e ciò dovrebbe farci legittimamente dubitare di certi racconti.
A titolo di esempio, Nagarjuna è considerato uno dei più grandi pensatori del buddismo asiatico, con un’influenza significativa nello sviluppo storico del buddismo. Vissuto in India tra il II e il III secolo d.C., il suo approccio filosofico si concentrò esclusivamente sulle implicazioni del pensiero del Budda, tralasciando la sua storicità. In un periodo in cui la tradizione buddista era soggetta a intense discussioni e divergenze, Nagarjuna enfatizzò il concetto di "vacuità" applicandolo a tutte le cose, comprese le stesse dottrine del Budda. Questo ci allontana dall’importanza letterale o storica del Budda verso una comprensione più astratta e filosofica della sua figura. Nei tempi successivi, il buddismo Mahayana, come quello interpretato da Nichiren Daishonin, ha fatto coincidere “il Budda” con “la vita stessa”, in una comprensione cosmica e metafisica che nulla ha a che vedere con la storicità. In tale visione, i racconti sulla vita del Budda storico assumono quindi una valore esclusivamente didattico, anche se difficilmente i fedeli se ne rendono conto o sarebbero disposti ad accettarlo.
Potremmo fare un discorso analogo sulle tradizioni giudaico-cristiane, la cui narrazione storica non ha alcuna base documentaria che possa liberarci da seri dubbi, a meno che non si voglia considerare la Bibbia come un documento storicamente fondato, di cui però non si sa nulla né sugli autori, né sulle infinite manipolazioni e aggiustamenti che ha subito nei millenni. A fare indagini storiche in tal senso ci hanno già pensato noti biblisti, con risultati sorprendenti rispetto alle narrative didattiche e semplificate trasmesse ai fedeli. Il biblista Mauro Biglino, peraltro coautore del libro con Pietro Buffa precedentemente citato, è noto per aver chiaramente messo in luce la distanza incolmabile e sorprendente tra la narrazione della tradizione cattolica e quella scritta nella Bibbia, pur senza aver mai sostenuto che l'una sia più vera dell'altra. Anzi, lui ha affermato che se qualcuno fosse alla ricerca di una teologia, farebbe meglio a scegliersene una tradizionale perché pienamente degna nel suo percorso evolutivo, piuttosto che ad affidarsi a teologie alternative contemporanee. Concordo con lui nel senso che ciò che secondo me conta è il messaggio che è arrivato a noi, non come si è formato storicamente. Più un'idea è valida, e meno sono importanti gli autori.
Quel che ho scritto fin qui è solo un punto di vista fra i tanti, di cui peraltro dubito. Il problema non è discutere con calma di determinate questioni, ma al contrario “non avere dubbi” e pretendere che nessun altro abbia il diritto d’averli. Da qui, la strada a disumanizzare l’altro sarebbe molto breve.
In tutto ciò, non è molto più liberatorio l’atteggiamento di Socrate, che sapeva di non sapere? Forse è quella l’unica libertà?
Estremizzando, come puro esercizio dialettico, potrei avere dubbi sull’esistenza della forza di gravità o sulla rotondità della Terra. La mia argomentazione è che ho dubbi sull’oggettività del mondo fisico, che lo considero più in conseguenza di come è fatta la nostra mente e dei limiti dei nostri processi cognitivi, piuttosto che dotato di caratteristiche intrinseche e immutabili. Intendo dire che noi percepiamo il mondo in un certo modo non perché sia realmente in quel modo, ma perché le nostre caratteristiche psico-fisiche non ci permettono di percepirlo diversamente. Altri popoli di altre parti dell’universo, con processi cognitivi diversi dai nostri e corpi fisici diversi o addirittura senza corpi fisici (mi riferisco sia ai casi documentati da Corrado Malanga, sia agli angeli e demoni della tradizione cristiana), potrebbero percepire tutto ciò che esiste su due dimensioni invece che su tre, oppure su quattro o cinque. E se le dimensioni geometriche non fossero tre, allora la Terra non potrebbe essere sferica, né nessun altro corpo celeste potrebbe esserlo. Il fatto che la geometria dello spazio debba avere tre dimensioni è solo una questione di utilità legata ai nostri limiti. Del resto, la stessa dinamica delle adduzioni (rapimenti alieni) ampiamente documentata da migliaia di casi, indagati uno per uno da Corrado Malanga, è fatta di eventi fisici non compatibili con la nostra percezione e conoscenza del mondo.
Quanto alla forza di gravità, le forme di vita che non hanno corpo fisico potrebbero non percepirla affetto, o percepirla in modo diverso dal nostro. Oppure, tornando ai velivoli alieni precedentemente accennati, i loro voli sono incompatibili con le nostre conoscenze fisiche, così come lo è la loro capacità di rimanere immobili in aria senza spinte propulsive. Le intelligenze che hanno creato questi mezzi di trasporto hanno presumibilmente una concezione della gravità significativamente diversa dalla nostra.
Chiunque analizzi queste mie riflessioni, noterà che ho portato tanti dubbi, e varie affermazioni opinabili. Il testo trasuda di alcuni miei punti di vista, i quali, però, domani stesso potrebbero essere diversi, perché tutto cambia e si trasforma. Come ho precedentemente accennato, dubito pure dei dubbi che ho posto.
(14 agosto 2024)