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Tre esercizi per la pace interiore

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Guerra a Gaza, Palestina, desiderio di paceIl mondo ha più lacrime di quante ciascuno di noi possa immaginare.

Queste sono giornate di intense manifestazioni per la pace, ma cosa ne rimarrà a distanza di mesi, di anni, di decenni? Di solito il potere fa quello che vuole e governa gli umori delle masse come preferisce, indirizzandone l'azione per finalità diverse da quelle dei diretti interessati. Ciò che appare spontaneo è quasi sempre preparato da tempo e manovrato, senza che chi protesta ne abbia consapevolezza o sentore.

Alla fine, già dopo poco, di tanti movimenti popolari non è rimasto che uno sbiadito ricordo, senza miglioramenti per nessuno nonostante tutto il cuore e la passione. Purtroppo nell’animo di gran parte di noi c’è un crescendo di solitudine e di impotenza in cui i peggiori demoni si trovano a proprio agio. E quindi, cosa possiamo fare?

Non c’è via per la pace che non inizi da noi stessi. Tutto il resto è un “di più” che senza un allenamento interiore, con disciplina e costanza, porta poco lontano o, peggio, si rivela controproducente e dannoso.

Secondo me, la palestra quotidiana per allenare la pace interiore è fatta di tre esercizi, di cui due facili e uno difficile. 

1. Sostituire le certezze con dubbi, con possibilità

Ogni volta che siamo certi di un nostro pensiero o giudizio, proviamo a metterlo in dubbio, lasciando aperte più possibilità interpretative della realtà. Sentenziare che qualcosa che non ci piace sia sbagliato ci pone in conflitto con chi ha una certezza di tipo opposto, quindi non è un atteggiamento pacifico. Viceversa, dubitare che qualcosa che non ci piace sia saggio o utile, esprimendo perplessità, pone già noi stessi e gli altri in un modo più dialogante. Ma questo è solo l’inizio, anzi, il minimo.

I jainisti hanno ben inquadrato la questione con il concetto di anekāntavāda, che promuove una forma di ahiṃsā intellettuale (non-violenza nel pensiero e nel parlare), fatta di umiltà, dialogo, e rifiuto delle verità assolute proclamate in modo esclusivo. Nella pratica del jainismo orienta l’etica, la logica e il dibattito filosofico.

È un principio cardine, di solito tradotto come “dottrina della non-unilateralità” o del “molteplice”: la realtà è estremamente complessa e nessuna singola affermazione la esaurisce. Ogni enunciato è vero solo da un certo punto di vista e in certe condizioni. La disparità delle posizioni su un certo tema non va vista sotto il segno dello sconcerto e del caos, ma come una fonte di arricchimento.

2. Mettersi al servizio

Ciascuno di noi ha caratteristiche, possibilità, talenti. Invece di lamentarci che le cose non vanno come vorremmo, o che la vita è tremendamente difficile, possiamo cogliere le occasioni che ci vengono offerte, anche se fossero poche o rare, per dare il nostro piccolo contributo grazie a ciò che siamo. Certe cose possiamo farle noi e non altri, e viceversa. Questo ci aiuterà, giorno per giorno, a costruire rapporti basati sul completarci a vicenda, e questo è molto pacifico.

Viceversa, gareggiare per primeggiare in una guerra di ognuno contro tutti, serve solo a distruggere quello che di bello e buono abbiamo e a renderci stupidi. Non cerchiamo di essere migliori di nessuno, ma offriamo al mondo i nostri doni.

3. Convincimento interiore sulla bontà della vita

I primi due esercizi sono facili, questo invece è difficile, perché richiede la pazienza di un santo e la fede di un profeta. Se arriviamo al punto di considerare tutto ciò che accade, comprese le peggiori disgrazie, come qualcosa di necessario per il nostro bene, per la nostra crescita, per lo scopo per il quale ci siamo incarnati, allora siamo nella direzione giusta per essere costruttori di pace.

Serve quindi una fede che non può essere giustificata o motivata né dal ragionamento né dalla psicologia. E’ una consapevolezza interiore che si ha o non si ha. Le pratiche spirituali e gli insegnamenti possono aiutarci a risvegliarla, ma il percorso è personale. Un maestro può indicarci la via, ma sta a ciascuno di noi, come allievi, praticarla.

Ascoltiamo alcuni maestri:

  • Daisaku Ikeda (Buddismo di Nichiren)
    Se consideriamo le difficoltà della vita come sventura o come fortuna dipende interamente da quanto abbiamo temprato la nostra determinazione interiore. (fonte)

  • San Paolo (Cristianesimo)
    Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. (fonte)

  • Profeta Muhammad (Islam)
    Straordinaria è la condizione del credente: in ogni cosa c’è un bene; se la prosperità lo raggiunge, ringrazia ed è un bene per lui; se lo colpisce l’avversità, è paziente — ed è un bene per lui. (fonte)

  • Naḥum Ish Gamzu (Ebraismo rabbinico)
    Lo chiamavano Naḥum Ish Gamzu perché, qualunque cosa gli accadesse, diceva: “Anche questo è per il bene”. (fonte)

  • ‘Abdu’l-Bahá (Fede Bahá’í)
    Le prove sono benefici da parte di Dio, per i quali dovremmo ringraziarlo. Il dolore e il cordoglio non ci giungono per caso: sono inviati dalla Misericordia divina per la nostra perfezione. (fonte)

  • Śāntideva (Buddismo Mahāyāna)
    Inoltre, la sofferenza ha buone qualità: attraverso il disincanto essa dissipa l’arroganza; fa sorgere compassione per coloro che vagano nell’esistenza ciclica; si rifuggono le negatività e si trova gioia nella virtù. (fonte)

  • Bhāgavata Purāṇa 10.14.8 (Induismo, Vaiṣṇavismo)
    Colui che attende con fiducia la tua misericordia, mentre pazientemente sopporta i frutti delle azioni passate e ti rende omaggio con cuore, parole e corpo, diventa certamente degno della liberazione. (fonte)

  • Laozi, Tao Te Ching 58 (Taoismo)
    La sventura poggia sulla fortuna, e la fortuna si nasconde nella sventura; chi può conoscerne il termine? (fonte)

Ringraziamo i maestri dell'umanità. Le loro parole sono tanto più utili quanto più servono a confermare ciò che interiormente abbiamo già compreso.

(5 ottobre 2025)

W la vita!

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