Quanto segue è un'intervista di Silvia Truzzi a padre Enzo Bianchi sulla festività della Pasqua, pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" del 4 aprile 2015 (fonte).
In questo blog, avevo già inserito un augurio per la Pasqua rivolto a tutti, credenti e non, intitolato "Un augurio di rinnovamento interiore".
Buona lettura,
Francesco Galgani,
5 aprile 2015
Da qualche giorno ci facciamo gli auguri: “Buona Pasqua” o “Buone feste”. Ma questo “passaggio, la festa, può significare qualcosa anche per chi non ha la fede? Lo abbiamo chiesto a padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose e scrittore. Al telefono – con la voce bassa e gentile che è da sola un balsamo – comincia così: “Per i cristiani la Pasqua è il significato che fonda tutta la loro fede, perché è la memoria della Resurrezione di Gesù Cristo. E quindi del fatto che la morte non è più l’ultima frontiera. Gesù era un uomo, ma era anche il figlio di Dio: i cristiani lo confessano nel Credo, costantemente. Paolo l’apostolo arriva a dire “Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede”. Quindi la fede dei cristiani si fonda tutta sulla Resurrezione di Gesù, che attualmente è vivente e presente all’interno della Storia come qualcuno che ne cambia definitivamente le sorti.
E per chi non crede?
Per credere nella Resurrezione occorre che ci sia la fede. E la fede è un dono di Dio. Ma il messaggio della Pasqua vale per tutti. Se vogliamo decodificarla dalle formule teologiche o dogmatiche, la Pasqua ci dice che un uomo, Gesù Cristo – avendo vissuto l’amore fino all’estremo, facendo del bene, non rispondendo alla violenza, servendo gli uomini e i fratelli – è andato alla morte, condannato dal potere religioso e dal potere politico totalitario: accade sempre ai giusti e a tutti quelli che nella Storia si sono opposti al male. Questo suo amore non poteva finire nella morte. In ogni cultura c’è l’opposizione tra eros e thanatos, l’amore e la morte che si combattono. È qualcosa che viviamo nelle nostre vite: quando amiamo vorremmo che questo amore fosse eterno. Quando diciamo a una persona “ti amo” è un dire che l’amore sta iscritto nell’eternità. Perfino il Cantico dei Cantici termina dicendo che amore e morte stanno in un duello. E che l’amore è tenace e forte come la morte. Ma il Cantico dei cantici non risolve il problema. Invece il Cristianesimo nella sua fede ha questo messaggio: l’amore è più forte e la morte non può essere l’ultima parola. L’amore può vincere: questa idea può interessare tutti.
Perché?
Tutti gli uomini, tutti, sanno che cos’è l’amore: lo sperimentano, sanno come sia la cosa più grande, ciò che può dare senso. Al di là della vita eterna o del Paradiso, l’insegnamento che l’amore vince è universale, perché c’è qualcosa che travalica l’assurdità della morte, qualcosa che può combattere l’ingiustizia della morte. L’impegno dell’uomo ad amare è insieme il più grande sforzo e la più grande battaglia. La morte poi non è solo la fine dell’esistenza: ogni giorno possiamo trovarla accanto a noi. Le situazioni di morte sono molteplici, ma si può batterle.
Che cos’è il mistero pasquale?
Nella vulgata diciamo “mistero” per intendere una cosa incomprensibile. Mentre per il Cristianesimo è un termine tecnico, per intendere ciò che è stato nascosto ma che deve essere rivelato. Dire che la Pasqua è un mistero significa che di fronte alla morte possiamo scoprire non solo il regno della morte, ma anche “il senso del senso”. Possiamo andare in profondità nel significato: questo è il mistero.
Cosa intende quando dice il “senso del senso”?
Ogni uomo, credente o non credente, cerca un senso alla propria esistenza. Vorrebbe che la sua vita fosse salvata: sappiamo che oggi per molti l’orizzonte è disperato perché non trovano un senso. La caratteristica più dolorosa del nostro tempo è la mancanza di speranza. C’è un senso, tra i vari sensi della vita, più profondo che io penso risieda nella coscienza di ogni uomo. È ciò che chi ha la fede chiama immagine e somiglianza con Dio. E chi non ha la fede chiama vita interiore, ciò che chiama coscienza. Dentro di noi c’è la capacità di vedere il bene e il male e di giudicarli; c’è la capacità di capire che l’amore dà senso alla vita e può salvare le nostre esistenze. La profondità di senso è molto importante: ne ha parlato Paul Ricœur, che ha riflettuto molto su come, nella ricerca di senso, sia possibile trovare un senso più profondo. Non solo “cosa posso fare”, “cosa posso conoscere”: anche “cosa posso sperare”. Questo per me è il senso del senso.
Ne La gaia scienza di Nietzsche c’è il famoso passaggio, “Dio è morto”. “E noi l’abbiamo ucciso”. Poi il folle aggiunge: “Non è troppo grande per noi la grandezza di quest’azione?”.
L’esclamazione di Nietzsche va ben capita, perché spesso diventa uno slogan per cantare la morte di Dio. Nietzsche comprendeva che se noi finiamo per dire che Dio è morto – al di là di ogni teismo e confessione di fede – è come se negassimo la possibilità che ci sia il “senso del senso” di cui parlavamo poc’anzi. Cioè che ci sia la possibilità di sperare in un oltre, al di la della morte. Se non abbiamo questa speranza, se la morte resta l’ultimo confine, è difficile trovare un senso. Non bisogna focalizzare il discorso su Dio, quanto sull’amore che svuota la morte.
Cosa chiedono le persone quando vengono da voi a Bose?
La cosa che più facciamo in comunità è l’ascolto. Soprattutto il sabato e la domenica, vengono qui tantissime persone. Si mettono in fila per ascoltare una parola, per chiederla. Per essere ascoltati, perché nessuno più ascolta. I drammi sono la famiglia – dove a volte al posto dell’amore appare la violenza – la mancanza di lavoro e di denaro, la difficoltà di arrivare alla fine del mese. L’altro tema è quello di una società in cui non si riesce a trovare speranza. La gente soffre oggi più che mai: un tempo c’erano forse più orecchie disposte ad ascoltare. Ora sembra che tutti vogliano parlare e più nessuno abbia tempo di ascoltare. Capita anche non si riesca a dire qualcosa perché le situazioni sono così disperate che si può soltanto tacere e tenere la mano dell’altro.
I più giovani?
Vorrebbero una parola che li autorizzi a vivere e a sperare. Purtroppo abbiamo una società in cui abbondano i cattivi maestri, questo è un enorme problema. I ragazzi sentono il vuoto dell’educazione, di qualcuno che li guidi nel difficile mestiere di vivere. Le eredità si possono tramandare, ma bisogna autorizzare chi arriva dopo a riceverle: non sempre i giovani riescono a prendere da soli la parola. Le ultime generazioni non hanno avuto, da parte di chi le ha precedute, questa trasmissione. È avvenuta una rottura della tradizione: non mi riferisco solo ai valori, ma soprattutto alla speranza. C’è poca fiducia: prima della fede, manca la fiducia. La fede in Dio nasce per dono di Dio. È innescata se c’è la fiducia negli altri e in questa terra: come può esserci fede in un Dio che non abbiamo mai visto, se non c’è fiducia nel nostro prossimo?
In che misura incide la crisi economica?
Ai ragazzi la mancanza di lavoro – e quindi la mancanza di orizzonte – impedisce l’ingresso nella Storia con una responsabilità. Si sentono defraudati, già prima di entrare nella vita e nella società. Dobbiamo capire però che non basta uscire dalla crisi economica, ammesso che ci si riesca. Poniamo di sì: se quelli che ci fanno uscire dalla crisi non fossero dei buoni maestri, se non fossero capaci di trasmettere fiducia e speranza, diventerebbe inutile anche quello. Se le persone che pensano di poter fare qualcosa non riuscissero a trasmettere un messaggio di umanizzazione, la situazione continuerebbe a essere disperante.
A chi si riferisce quando parla di cattivi maestri?
A tutto l’insieme. Siamo in una società in cui quelli che dovrebbero essere esemplari sono cattivi maestri. Nel mondo politico, nel mondo delle autorità: a loro competerebbe prima di tutto essere esemplari, insegnanti nel senso di persone che fanno segno. Invece lo spettacolo è tale che non possiamo certamente dire di avere buoni maestri: questo è il peso che grava sui giovani. Penso alla corruzione, all’illegalità diffusa: ogni giorno c’è un caso nuovo. Non sembra che alle viste ci siano miglioramenti. Siamo sempre nella stessa situazione, in cui prevale la furbizia, la concorrenza spietata, l’interesse personale. Il bene comune è un concetto che non riesce più a imporsi.
Quando è iniziato questo declino verso la spietatezza?
Ho scritto, alla fine degli anni Novanta, un articolo sulla Stampa che s’intitolava “Piccoli passi verso la barbarie”. Poi all’inizio del Duemila “Grandi passi verso la barbarie”: non ne siamo ancora venuti fuori. E, mi rincresce dirlo, non abbiamo ancora nemmeno cambiato direzione.
Da "Il Fatto Quotidiano" di sabato 4 aprile
(fonte)