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Proposta di Pace 2015 - Eliminare l'infelicità dalla terra. Un impegno condiviso per un futuro più umano

Si veda anche: Proposta di Pace 2016 - Il rispetto universale della dignità umana: la grande strada che porta alla pace

Fonte originale: Buddismo e Società n.170 - maggio giugno 2015 (link all'articolo originale)
Autorizzazione alla ripubblicazione nel presente blog concessa dall'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Proposta di pace 2015

Eliminare l'infelicità dalla terra. Un impegno condiviso per un futuro più umano

di Daisaku Ikeda

In occasione del quarantesimo anniversario della fondazione della Soka Gakkai Internazionale (SGI), vorrei condividere alcuni pensieri su come sviluppare una solidarietà più profonda tra le popolazioni del mondo per raggiungere la pace e il rispetto dei valori umani e per eliminare tante inutili sofferenze dalla Terra.
Il futuro è determinato dalla profondità e dall'intensità del voto o impegno assunto dalle persone che vivono nel momento presente. In quanto esseri umani, possediamo la capacità di compiere dei passi per assicurarci che nessun altro, ora e nel futuro, debba sopportare le sofferenze che ci affliggono oggi.
A settant'anni dalla loro fondazione, le Nazioni Unite hanno allargato l'orizzonte delle loro attività per misurarsi con una serie di problematiche globali. Gli Obiettivi di sviluppo del millennio (MDG), adottati nel 2000 e con scadenza ultima nel 2015, avevano lo scopo di migliorare le condizioni delle popolazioni afflitte dalla fame e dalla povertà. Nel luglio scorso, il Gruppo di lavoro aperto sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) - nuovi obiettivi che proseguiranno gli sforzi profusi per la realizzazione degli MDG e che hanno come termine il 2030 - ha pubblicato una proposta di grande interesse. In particolare, frasi come «porre fine alla povertà in tutte le sue forme in ogni luogo» e «garantire una vita sana promuovendo il benessere per tutti e in ogni età»1 esprimono l'impegno a proteggere la dignità di tutte le persone senza alcuna eccezione.
L'impegno mondiale per raggiungere gli MDG ha portato a successi importanti come la riduzione a settecento milioni del numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema e un importante ridimensionamento della disparità tra ragazzi e ragazze nell'accesso all'educazione primaria. Tuttavia molte regioni e molti popoli devono ancora sperimentare miglioramenti concreti. Consapevole di queste problematiche, il Gruppo di lavoro aperto ha cercato di stabilire alcuni livelli minimi universali. Avendo sostenuto nelle precedenti proposte, e anche altrove, che i nuovi obiettivi internazionali legati all'agenda di sviluppo post-2015 non devono tralasciare nessuno, accolgo con favore questa linea.
Ricordo che il mio maestro, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda (1900-58), di fronte alla sofferenza del popolo ungherese seguita al fallimento della rivolta del 1956, dichiarò: «Desidero che la parola "infelicità" non debba mai più essere usata per descrivere il mondo, o un paese, o un individuo».2
Martin Luther King (1929-68) pronunciò la famosa dichiarazione: «La giustizia è indivisibile».3 Questa era anche la convinzione di Toda, derivante dalla sua esperienza di prigionia vissuta insieme al primo presidente della Soka Gakkai Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944) per aver opposto resistenza alla politica di controllo del pensiero portata avanti dal governo militarista giapponese durante la seconda guerra mondiale. Egli comprese che la pace e la sicurezza, la prosperità e la felicità sono condizioni che non possono essere godute da un gruppo di persone mentre altre soffrono perché ne sono prive. E quando la guerra di Corea si inasprì, espresse una profonda preoccupazione personale: «A causa di quell'efferata guerra, un numero davvero alto di persone ha perso mariti e mogli, e molti ora devono cercare genitori o figli dispersi».4
Alla base delle sue azioni c'era una profonda empatia nei confronti della sofferenza delle persone comuni, che espresse nella sua visione di un "nazionalismo globale": gli esseri umani hanno il diritto di vivere felici e in pace, a prescindere dalla nazionalità e dal luogo in cui risiedono. Al centro di questa visione c'era il profondo desiderio di liberare il mondo dall'infelicità, e questa aspirazione continua ad animare le attività della SGI nel campo della pace, della cultura e dell'educazione e nel sostegno alle Nazioni Unite.
Il processo per riuscire a includere "tutte le persone in ogni luogo", che pervade la proposta del Gruppo di lavoro aperto, e per sviluppare una cooperazione ancora maggiore a tale fine, sarà irto di difficoltà. È quindi vitale tornare allo spirito della Carta delle Nazioni Unite, che non ammette eccezioni al suo impegno - iscritto nel preambolo - di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», di «riaffermare la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana» e di promuovere «il progresso economico e sociale di tutti i popoli».
Ora vorrei affrontare tre temi fondamentali per sostenere il processo verso il raggiungimento dei nuovi obiettivi di sviluppo internazionale delle Nazioni Unite e per accelerare gli sforzi volti a eliminare l'infelicità dalla faccia della Terra.

La riumanizzazione della politica e dell'economia
Il primo tema fondamentale è la "riumanizzazione della politica e dell'economia", affinché la loro motivazione primaria sia quella di eliminare le cause della sofferenza umana.
Nell'agosto dello scorso anno il Toda Institute for Global Peace and Policy Research, che ho fondato per onorare l'eredità del mio maestro, ha organizzato a Istanbul, in Turchia, un convegno di ricercatori senior per analizzare alcune situazioni critiche come la guerra civile siriana, il conflitto israelo-palestinese, le condizioni dell'Iraq e dell'Ucraina e le crescenti tensioni in Estremo Oriente.
Allo stesso tempo, i partecipanti hanno sottolineato le tendenze positive emergenti e hanno scambiato opinioni per sostenere e consolidare tale andamento positivo. Oltre ad azioni di importanza critica, come per esempio rafforzare le Nazioni Unite e altre agenzie internazionali e favorire lo sviluppo di empatia, immaginazione e creatività tra i membri delle giovani generazioni, si sono particolarmente concentrati sul tema della riumanizzazione della politica affinché la sua principale motivazione sia alleviare la sofferenza delle persone.
La Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti umani hanno chiarito il ruolo degli Stati nella protezione dei diritti umani fondamentali, e tuttavia gli Stati stessi sono spesso la fonte principale di minaccia alla vita e alla dignità delle persone. Questa è una preoccupazione di cui ho parlato con l'organizzatore del convegno Kevin Clements, segretario generale del Toda Institute.
L'esempio più atroce di tali minacce è la guerra. Negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale solo un esiguo gruppetto di nazioni è stato capace di evitare del tutto il coinvolgimento in un conflitto armato. Inoltre, in troppi casi le libertà civili e i diritti umani sono stati limitati in nome della sicurezza dello Stato, e il potenziamento della forza nazionale è spesso avvenuto a spese dei membri più vulnerabili della società. In anni recenti, situazioni di crisi gravi come disastri naturali e fenomeni atmosferici estremi hanno esposto le popolazioni a condizioni di privazione improvvisa.
Dare risposte a sofferenze di questo tipo è una responsabilità essenziale di ogni sistema politico, e lo stesso vale per l'economia.
Due anni fa Papa Francesco ha lanciato la ben nota sfida al nostro attuale sistema economico: «Com'è possibile che non faccia notizia se un anziano senzatetto muore per assideramento, ma fa notizia se il mercato azionario perde due punti?».5 In effetti l'ossessione per indici macroscopici come il tasso di crescita economica spesso finisce per mettere da parte la preoccupazione per la vita, la dignità e il sostentamento degli individui, così che l'incremento del ritmo dell'attività economica non riesce ad alleviare le difficoltà che le persone affrontano quotidianamente.
La parola "politica" deriva dal termine greco politeia, che tra i suoi significati comprende il ruolo dei cittadini all'interno della nazione. In giapponese il termine "economia" è un'abbreviazione dell'espressione cinese di quattro caratteri che significa "portare ordine nella società e alleviare la sofferenza delle persone". Oggi il significato originale di queste parole si è perso e i princìpi trainanti dell'azione politica ed economica sembrano solo creare sofferenze ancora maggiori per coloro che si trovano in circostanze già difficili.
A tale proposito vorrei ricordare il concetto di Dharma, che secondo i primi insegnamenti buddisti fu indicato da Shakyamuni come il modo fondamentale secondo il quale l'umanità dovrebbe vivere. Dharma, che deriva dalla radice dhr, è una parola sanscrita che significa "ciò che sostiene o sorregge". Nelle traduzioni cinesi delle scritture buddiste fu reso con termini che significavano "la Legge" o "la Via". In altre parole esprime l'idea che, in quanto individui, ci occorre qualcosa che ci sostiene o ci sorregge e che, come spiega lo studioso buddista Hajime Nakamura (1912-99), ci sono sentieri e princìpi che in quanto esseri umani dobbiamo seguire e osservare.6
Anche se è del tutto naturale che aspetti specifici della pratica economica e politica debbano trasformarsi in armonia con i tempi, ci sono comunque princìpi a cui si deve aderire e modelli di comportamento che non si possono ignorare. Negli insegnamenti dell'ultimo periodo della vita Shakyamuni incoraggiò i suoi discepoli a vivere in ogni occasione la loro esistenza in accordo con questo Dharma fondamentale, che egli paragonò a un'isola volendo esprimere l'idea che nel mezzo delle varie realtà della società il Dharma è come un'isola durante un'inondazione, che protegge la vita delle persone fornendo loro un rifugio. Partendo da tale concetto potremmo dire che il ruolo della politica e dell'economia è quello di offrire in tempi di crisi uno spazio di sicurezza soprattutto per i più vulnerabili, una base da cui le persone possano riguadagnare la speranza necessaria per vivere.
Se torniamo alle origini della politica dal punto di vista dei cittadini comuni, troviamo la speranza quasi religiosa che si possa rendere la società un posto migliore grazie alla propria partecipazione e al proprio voto. Allo stesso modo, le origini dell'economia vanno ritrovate nel forte desiderio delle persone di rivestire un ruolo utile nella società grazie al proprio lavoro o occupazione. Tuttavia quando la politica agisce su grande scala riscontriamo ciò che viene definito un "deficit democratico", una situazione in cui la volontà popolare non si riflette nella politica. In ambito economico un fenomeno analogo si può riscontrare negli eccessi del settore finanziario, in cui speculazioni incontrollate provocano la distruzione dell'economia reale.
Quali sono quindi i princìpi che dobbiamo adottare se vogliamo contenere queste tendenze e compiere il necessario aggiustamento di rotta nei nostri attuali sistemi politici ed economici?
A tale proposito credo che le seguenti parole, che il Mahatma Gandhi (1869-1948) scrisse a un amico, siano davvero significative: «Ricorda il volto dell'uomo più povero e debole che tu abbia mai visto, e chiediti se il passo che stai considerando di fare sarà di qualche utilità per lui».7
Ciò che Gandhi ci sta invitando a tenere a mente, quando si prendono decisioni cruciali, è la sofferenza delle persone reali con cui condividiamo questo mondo, invece di una particolare dinamica politica o teoria economica.
Sento che tale visione è profondamente in accordo con l'insegnamento buddista della Via di Mezzo, che non significa semplicemente evitare gli estremi nel pensiero o nell'azione ma si riferisce piuttosto al processo di attenersi alla Via, cioè di vivere e lasciare la propria impronta nella società valutando costantemente le proprie azioni per assicurarsi che siano in accordo con il sentiero dell'umanità. Incoraggiando le persone ad affidarsi al Dharma come a un'isola, Shakyamuni le spingeva anche ad affidarsi a se stesse. Agendo in questo modo stava indicando il vero significato della Via di Mezzo: non seguire ogni capriccio senza pensare ma piuttosto, come Hajime Nakamura ha dichiarato, «fare affidamento sul proprio io autentico, l'io in cui possiamo credere e di cui possiamo essere orgogliosi in ogni momento».8
Considerare tutti coloro che saranno influenzati dalle nostre azioni e riflettere sul peso della nostra responsabilità ci apre alla rivelazione del nostro autentico io e ci permette di lucidare la nostra umanità. Attraverso questo sforzo possiamo esplorare con profondità sempre maggiore il significato e il ruolo dei sistemi politici ed economici e creare nella società le condizioni per la loro riumanizzazione. Questo dinamismo è l'essenza della Via di Mezzo.

La Via di Mezzo
La Via di Mezzo è un'espressione buddista dalle molte connotazioni. Nel senso più ampio si riferisce alla visione illuminata che il Budda ha della vita, e anche alle azioni o all'atteggiamento che creano felicità per sé e per gli altri. Trascende il dualismo che sta alla base di gran parte dei sistemi di pensiero. Ad esempio, il Buddismo descrive la vita come «una realtà inafferrabile che trascende sia le parole sia i concetti di esistenza e non esistenza, e tuttavia manifesta le qualità di entrambe». In altre parole, la vita stessa è l'espressione massima dell'armonia delle contraddizioni. La saggezza che nasce da una visione illuminata della vita conduce alla capacità di riconciliare posizioni apparentemente contraddittorie, di trascendere gli estremi di visioni opposte, di radicarsi nella profonda realtà della vita e di individuare così un sentiero per la pace.

Le decisioni prese su questa base possono essere criticate o rifiutate perché vanno in controtendenza rispetto agli umori della società o alla corrente dei tempi. Ma non saper rimanere fedeli alle proprie convinzioni non è semplicemente un passivo non riuscire a fare il bene; è qualcosa di molto peggio, perché può aprire la strada a un male che causerà sofferenza a un grande numero di persone. Questa fu la dichiarazione appassionata di Tsunesaburo Makiguchi, il presidente fondatore della Soka Gakkai.
In tempo di guerra Makiguchi sfidò in prima persona, con le parole e le azioni, il fascismo militarista giapponese e le sue politiche di controllo del pensiero. A partire dal 1940 le riunioni della Soka Kyoiku Gakkai (Società educativa per la creazione di valore), antesignana della Soka Gakkai, furono sottoposte a sorveglianza dalla Polizia speciale superiore. Nel maggio del 1942 il Kachi sozo, il periodico dell'organizzazione, fu costretto a sospendere le pubblicazioni e nel luglio del 1943 Makiguchi fu arrestato e interrogato.

La Soka Kyoiku Gakkai e l'oppressione religiosa durante la seconda guerra mondiale
La Soka Kyoiku Gakkai (Società educativa per la creazione di valore) fu fondata da Tsunesaburo Makiguchi e Josei Toda nel 1930. In origine era costituita da un gruppetto di educatori impegnati nella riforma del sistema pedagogico. Tuttavia il gruppo gradualmente si sviluppò in un'organizzazione con un numero più ampio di membri che promuoveva il Buddismo di Nichiren come mezzo per riformare non solo l'educazione ma la società nel suo insieme. Ciò portò il gruppo in diretto contrasto con il governo militarista dell'epoca che vedeva il ruolo dell'educazione come un mezzo per trasformare le persone in servi dello Stato e aveva imposto lo Shinto come ideologia di Stato quale giustificazione per la sua entrata in guerra. Dalla fine degli anni Trenta e nel corso di tutto il conflitto i membri della Soka Kyoiku Gakkai furono sottoposti dalla polizia a sorveglianza e a persecuzioni crescenti. A causa dell'oppressione del governo la Soka Kyoiku Gakkai fu di fatto stroncata, sia Makiguchi che Toda nel 1943 furono arrestati come colpevoli di "reati d'opinione" e Makiguchi morì in prigione nel 1944.

Si racconta che durante l'interrogatorio a una delle domande Makiguchi rispose: «A volte le persone, troppo preoccupate del giudizio della società, si sentono soddisfatte da uno stile di vita in cui non compiono né un vero bene né un vero male, o in cui ciò che fanno di buono è molto limitato. In casi estremi ciò porta a una visione secondo cui è accettabile fare qualunque cosa purché non sia proibita dalla legge. Io considero tali stili di vita forme di offesa nei confronti del Dharma buddista».9
Con la parola "offesa" Makiguchi si riferisce alle azioni che vanno contro gli insegnamenti del Buddismo, ma in un senso più ampio ci sta incoraggiando a riflettere su tutte le azioni che non sono in armonia con il sentiero di umanità. Alla base di molti esempi in cui le attività politiche ed economiche provocano vera infelicità troviamo l'indifferenza alla sofferenza degli altri e la prontezza all'autogiustificazione condannate da Makiguchi. Finché prevale questo modo di pensare, persino un apparente successo nell'ottenere la prosperità non si dimostrerà sostenibile ma al contrario lascerà il passo all'infelicità provocata da un atteggiamento egocentrico da dopo-di-me-il-diluvio.
La predominanza di simili atteggiamenti rende ancora più importante la sfida di riumanizzare le attività politiche ed economiche concentrandole sul sollievo dalla sofferenza umana. Si può notare qualche movimento in questa direzione. Ad esempio, centodieci paesi hanno ora fondato istituzioni nazionali per i diritti umani secondo le linee prescritte dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e da altri organismi. Queste istituzioni incoraggiano la fondazione di strutture legali per la protezione e l'educazione ai diritti umani. Nella mia Proposta di Pace del 1998 ho invitato a includere le ONG in partnership costruttive per trovare le modalità ottimali per il funzionamento di tali istituzioni.10
Nel campo dell'economia, nel maggio dell'anno scorso undici paesi membri dell'Unione Europea si sono accordati sull'implementazione congiunta di una "Tassa europea sulle transazioni finanziarie". Alla luce delle lezioni della crisi finanziaria del 2008 e del grave colpo assestato all'economia mondiale, essa potrebbe stabilire una tariffa per la tassazione delle transazioni finanziarie come mezzo per scoraggiare eccessive speculazioni e generare entrate per programmi di ridistribuzione. Tale sistema di tassazione potrebbe essere implementato già nel 2016. Nella mia proposta di sei anni fa ho invitato a una più ampia implementazione di questo tipo di imposte internazionali di solidarietà per sostenere il raggiungimento degli MDG. Ho suggerito che idee come una tassa sulle transazioni finanziarie potevano essere elementi all'interno di una competizione positiva tra gli Stati, in gara tra loro per sviluppare nuove idee e visioni per il futuro.11 La realizzazione degli SDG richiede un pensiero ancora più creativo.
La principale forza motrice per la riumanizzazione della politica e dell'economia è la solidarietà dei cittadini comuni che fanno sentire la loro voce spinti da un solido impegno per il nostro futuro collettivo. In uno dei suoi primi lavori Makiguchi sottolineò che lo spirito che anima una società non esiste separato dalle singole persone e che una nuova coscienza sociale deriva dalla comunicazione e dalla diffusione di un cambio di consapevolezza negli individui.12
In uno scambio di idee che ebbi con la studiosa della pace Elise Boulding (1920-2010) sulle metodologie della trasformazione sociale, lei dichiarò: «Da lungo tempo credo che un mondo integro e pacifico sia possibile se dedichiamo tutto il nostro impegno allo sviluppo di ogni membro della comunità».13 Sostenne anche che la direzione futura della società è in effetti determinata dal cinque per cento della popolazione attiva e impegnata, che alla fine trasforma la cultura nella sua interezza. Ho tratto grande speranza dalla sua fiducia.
In questo senso non sono i semplici numeri ma la forza e la profondità della nostra solidarietà a metterci sulla strada per la riumanizzazione della politica e dell'economia. La creazione di una solidarietà, nazionale e internazionale, tra cittadini comuni che non vogliono che nessuna persona sia infelice, è la chiave per trasformare la direzione della storia.

Una reazione a catena di empowerment
Il secondo tema fondamentale che vorrei esplorare è quello che io definisco "una reazione a catena di empowerment" con cui le persone possano sviluppare la capacità di trascendere e trasformare la sofferenza.
Negli ultimi decenni disastri naturali e condizioni climatiche estreme hanno inflitto gravi danni e provocato crisi umanitarie in tutto il mondo. Tra questi il terremoto di Kobe (1995), il terremoto e lo tsunami nell'Oceano Indiano (2004), il terremoto di Haiti (2010), il terremoto e lo tsunami nel Giappone Orientale (2011) e il tifone Haiyan (o Yolanda), che ha colpito le Filippine nel 2013. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, nel 2013 i disastri naturali hanno fatto sfollare ventidue milioni di persone, un numero tre volte maggiore di quelle estromesse dalle proprie case a causa di un conflitto armato.14
Ho sperimentato anch'io la profonda tristezza di perdere la casa. Durante la seconda guerra mondiale la salute malferma di mio padre e il reclutamento militare dei miei quattro fratelli maggiori minarono le finanze familiari, costringendoci a vendere la casa della mia infanzia. La casa in cui abitammo in seguito fu abbattuta per creare una barriera contro il fuoco, e subito dopo esserci trasferiti in una nuova abitazione questa fu colpita da una bomba incendiaria e rasa al suolo.
Grazie a queste esperienze riesco a immaginare facilmente la tristezza e la disperazione che affliggono le persone che hanno perso i propri cari e sono state costrette a lasciare la casa dove hanno sempre abitato. È la sofferenza per la perdita del mondo in cui si è vissuti. La vera sfida, in termini di ricostruzione e recupero, è che tutte le vittime riacquistino la speranza e la voglia di vivere, e a questo scopo è essenziale l'incessante sostegno della società nel suo insieme.
L'esperienza della perdita del proprio luogo - il senso di appartenenza e di comunità - è in realtà diffuso ovunque, anche se spesso in forme meno drammatiche. Prendendo di nuovo ad esempio il Giappone, si stima che una persona su cinque sopra i sessantacinque anni viva in povertà e che un bambino su sei soffra di privazioni come l'incertezza del cibo.15 Per molti la sofferenza della privazione economica va di pari passo con una sensazione di isolamento sociale.
Nella ricerca di soluzioni a questo problema considero molto pertinenti le opinioni della filosofa americana Martha C. Nussbaum, studiosa di filosofia politica ed etica, che fa notare come il tradizionale concetto di contratto sociale fu formulato senza includere le donne, gli anziani, i bambini e le persone disabili, e sottolinea come l'influenza della dottrina dell'utilitarismo porti a sorvolare sulla sofferenza di alcune categorie di persone: «Così la grande sofferenza e l'infelicità di una sola persona possono essere compensate dall'eccessiva fortuna di un certo numero di persone. Qui viene cancellato un fatto morale di importanza primaria - che ogni persona ha la sua propria esistenza da vivere».16
Nussbaum ci stimola a superare l'idea del vantaggio reciproco come unico principio organizzativo per la società e invita a riconfigurare la comunità sulla base di un concetto di dignità umana che non esclude nessuno. Sostiene inoltre che ognuno di noi, per ragioni di cattiva salute, età o altre ragioni, potrebbe a un certo punto necessitare dell'assistenza degli altri per vivere, e ci incoraggia a considerare la questione di dare una nuova direzione alla società come materia di una profonda riflessione personale.
La tesi di Marta Nussbaum ha molto in comune con il Buddismo, il cui tema principale è come affrontare l'inevitabile sofferenza che accompagna gli stadi di nascita, invecchiamento, malattia e morte. Come simboleggia la famosa storia dei quattro incontri, prima di abbracciare la vita religiosa Shakyamuni fu addolorato - anche più intensamente che dalle realtà della vecchiaia e della malattia - dal fatto che le persone fossero costrette ad affrontare quelle sofferenze in isolamento, morendo da sole sul ciglio della strada o in un letto malate senza attenzioni né cure. A quanto sembra si sentì particolarmente toccato di fronte alla rottura del contatto con gli altri e alla natura emarginante dell'esperienza della sofferenza.

I quattro incontri
La storia dei quattro incontri viene riportata in varie scritture buddiste come la motivazione che spinse Shakyamuni a rinunciare al mondo secolare e a dedicarsi a una vita religiosa. Shakyamuni era nato principe e conduceva una vita appartata all'interno del palazzo, protetto dal contatto con la sofferenza umana. In tre rare escursioni fuori dalle mura del palazzo si imbatté in un uomo appassito dall'età, in una persona distrutta dalla malattia e in un cadavere. Grazie a questi incontri, Shakyamuni si risvegliò alle quattro sofferenze di nascita, malattia, invecchiamento e morte. Il quarto incontro fu con un asceta, il cui aspetto di serena dignità spinse Shakyamuni a intraprendere una ricerca spirituale per capire come potevano essere superate le sofferenze della condizione umana.

Di fatto, accanto alla sua attività di maestro, Shakyamuni si prendeva costantemente cura delle persone sofferenti e rimproverava severamente i suoi discepoli se distoglievano lo sguardo da tali situazioni. A questo proposito un insegnamento riporta: «Quando la necessità si presenta, è piacevole [avere] degli amici».17 Né la malattia né la vecchiaia sminuiscono in alcun modo il valore essenziale della nostra esistenza. Nonostante questo, le persone cadono in una disperazione sempre maggiore quando sono isolate dagli altri e incapaci di sperimentare un senso di legame e di accettazione per come sono. Shakyamuni non riusciva a ignorare questa realtà.
Uno degli insegnamenti centrali del Buddismo mahayana è l'idea dell'origine dipendente, secondo cui il mondo è un tessuto di connessioni tra le varie forme di vita. La comprensione di questa interconnessione può metterci in grado di trasformare persino le esperienze dolorose di malattia e invecchiamento in opportunità per elevare e nobilitare la nostra esistenza e quella degli altri. Una semplice consapevolezza intellettuale dell'interdipendenza non è però sufficiente per creare questa trasformazione positiva.
«È come il caso in cui ci si inchini rispettosamente davanti a uno specchio: l'immagine nello specchio allo stesso modo si inchina rispettosamente davanti a noi».18 Come illustra questa citazione, solo quando percepiamo e apprezziamo negli altri una dignità preziosa e insostituibile come quella presente nella nostra vita, la nostra interdipendenza diventa tangibile. È allora che le lacrime e i sorrisi che scambiamo accendono in ognuno di noi una coraggiosa volontà di vivere.
Lo psicologo Erik H. Erikson (1902-94), famoso per il suo lavoro sulla concettualizzazione dell'identità, ha offerto una visione che somiglia da vicino al dinamismo dell'origine dipendente: «Ecco, vivere insieme significa di più di una vicinanza accidentale. Significa che le fasi della vita di un individuo sono "interconnesse", indentate come ingranaggi alle fasi delle vite degli altri, che muovono la sua vita così come egli muove le loro».19
Vorrei riferirmi alle idee di Erikson per esplorare le infinite possibilità che derivano dall'insegnamento dell'origine dipendente, cioè la capacità di auto-empowerment che può mettere in grado le persone sofferenti di illuminare la loro comunità e la società nel suo insieme con la luce della propria dignità interiore.
La prima idea di Erikson a cui vorrei riferirmi è il fatto che una persona matura ha bisogno di sentirsi necessaria.20 Ritengo che ciò significhi che, a prescindere dalla situazione, se ci sentiamo necessari agli altri si genera in noi il desiderio di rispondere alle loro esigenze. Questo desiderio risveglia le capacità innate della vita mantenendo viva la fiamma della dignità umana.
Mi torna alla mente l'esempio di Elise Boulding, che ho citato prima, e il modo in cui visse l'ultimo periodo della sua vita. Alcuni anni prima di morire diversi membri della SGI le fecero visita e la studiosa, ultraottantenne, spiegò che pur non avendo più l'energia di affrontare la stesura di un libro era in grado di contribuire scrivendo la prefazione di libri scritti da amici e studenti e rispondeva con gioia a quel tipo di richieste.
Ricoverata in una casa di cura a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute, trascorse ogni giorno motivata dal pensiero che c'era sempre qualcosa che lei poteva fare nonostante i limiti che stava affrontando. Kevin Clements, un tempo suo studente, ricorda che lei gli aveva detto che sentiva di poter fare del bene sorridendo e facendo complimenti a chi aveva intorno e ringraziando il personale medico per la sua gentilezza. Fino a poco prima di morire continuò ad accogliere visitatori con un meraviglioso spirito di ospitalità, proprio come aveva sempre fatto a casa sua.
Come dimostra questo esempio, siamo sempre capaci di alimentare il senso di legame con gli altri grazie al quale possiamo offrire momenti di vera felicità a chi ci circonda, rendendo ancora più luminosa la nostra umanità. Questi momenti diventano la testimonianza vivente della nostra esistenza e si incidono nel nostro cuore e in quello degli altri. Questa nobile brillantezza interiore è la manifestazione di un empowerment che persiste in qualsiasi situazione possiamo ritrovarci.
Un altro elemento del pensiero di Erikson è che lo sforzo per ritrovare un significato ha il potere di evitare che la sofferenza si diffonda e provochi cicli distruttivi. Non possiamo reinventare le nostre vite, ma raccontando agli altri le fasi che ci hanno condotto al momento presente possiamo riformulare il significato degli eventi passati. Erikson considera tale processo come una fonte di speranza.
Un esempio di ciò possiamo trovarlo nelle attività di fede della SGI, in particolare nella condivisione delle esperienze personali grazie alle quali i praticanti sviluppano insieme una fiducia più profonda. Questa tradizione di tenere piccoli gruppi di discussione risale all'epoca del presidente fondatore della Soka Gakkai Tsunesaburo Makiguchi.
Nel corso di tali incontri le persone parlano di cosa generi in loro felicità e di come trovino significato nella vita, raccontano di sofferenze come la morte di membri della famiglia, malattie, difficoltà finanziarie, un lavoro difficile, situazioni familiari complesse, l'esperienza della discriminazione o del pregiudizio. Sono luoghi di riconoscimento collettivo del peso e della natura insostituibile del viaggio esistenziale di ogni individuo, situazioni in cui si condividono liberamente lacrime di gioia e di tristezza e le persone sono incoraggiate a lottare per trasformare la sofferenza.
Grazie a tale condivisione, le persone che parlano sviluppano una chiara consapevolezza di come ogni singola esperienza sia di fatto una pietra miliare nella formazione del proprio io presente, e divengono così capaci di usare quelle esperienze come carburante per il progresso futuro. Per chi ascolta, l'esperienza condivisa può aiutare a far emergere il coraggio necessario per affrontare le sfide personali. Questa reazione a catena di empowerment, basata sull'empatia, è al centro della nostra pratica di fede.
Vorrei anche sottolineare l'impatto su vasta scala che possono avere le storie di singole persone che sono riuscite a scoprire un senso di scopo nel profondo delle loro sofferenze personali. Tali esperienze di vita superano i confini nazionali, collegano generazioni e offrono coraggio e speranza.
Come esempio di una simile storia di vita Erikson individuò Gandhi e lo considerò un modello della sua filosofia, arrivando a scriverne un ritratto biografico. Erikson descrive così i giovani che si riunirono intorno a Gandhi: «Questi giovani, allora, estremamente dotati sotto vari aspetti, sembrano avere in comune un "tratto" della personalità, una precoce e ansiosa preoccupazione per gli abbandonati e i perseguitati, prima nella loro famiglia e poi in una cerchia sempre più ampia».21
Questo processo sicuramente rispecchiava le stesse motivazioni personali di Gandhi. La sua esperienza di discriminazione in gioventù lo portò a lottare per i diritti umani in Sudafrica e, in seguito, al suo impegno nel movimento nonviolento per l'indipendenza indiana. Il suo più grande desiderio era liberare dall'oppressione tutta l'umanità, senza alcuna eccezione. Fu questa intensa passione a stimolare i giovani che lavorarono con Gandhi.
Dopo la sua morte, il suo esempio servì da stella cometa per tutti coloro che si impegnarono per la causa della dignità umana, tra cui Martin Luther King e Nelson Mandela (1918-2013). Quando incontrai il presidente Mandela nel luglio del 1995, parlammo di un articolo che aveva scritto sull'esperienza di Gandhi in carcere da pubblicare su un giornale accademico che celebrava il centoventicinquesimo anniversario della nascita del grande leader indiano, a cui avevo contribuito anch'io con un saggio. Mandela affermò: «Così resistette Gandhi il prigioniero all'inizio del nostro secolo. Anche se separati nel tempo, tra noi rimane un legame, nelle nostre esperienze comuni della prigione, nella nostra sfida alle leggi ingiuste e nel fatto che la violenza minaccia le nostre aspirazioni per la pace e la riconciliazione».22
Il fatto che Gandhi avesse già tracciato questo difficile sentiero fu senza dubbio un'importante fonte di forza per Mandela, che lo sorresse nel rimanere indomito durante una prigionia di oltre ventisette anni.
Cinquant'anni fa iniziai a scrivere La rivoluzione umana, un romanzo in più volumi sulla storia della Soka Gakkai, il cui tema principale è il fatto che una grande rivoluzione anche di una sola persona può aiutare a provocare un cambiamento nel destino di un'intera società e a rendere possibile la trasformazione del destino di tutta l'umanità. Tale processo racchiude l'idea di una reazione a catena di empowerment le cui infinite possibilità si allargano nello spazio attraversando i confini nazionali e nel tempo collegando generazioni diverse.

Espandere l'amicizia per porre termine alla guerra
Il terzo tema fondamentale che vorrei affrontare è l'espansione dell'amicizia al di sopra e all'interno delle differenze per costruire un mondo di coesistenza.
Negli ultimi anni sono avvenuti importanti cambiamenti nella natura dei conflitti che hanno destato nuove preoccupazioni. Si è verificata una crescente incidenza dell'internazionalizzazione delle guerre civili, poiché altre nazioni o gruppi sono diventati partecipanti attivi ai conflitti.
Tali sviluppi hanno, ad esempio, complicato moltissimo qualunque prospettiva per un trattato di pace nella guerra civile siriana.
Inoltre, l'obiettivo delle azioni militari si è gradualmente spostato. Lo scopo della guerra, come lo definì l'ideologo militare tedesco Carl von Clausewitz (1780-1831), è costringere l'avversario ad accettare la propria volontà. Ora, però, si pone maggiore enfasi sull'eliminazione di qualunque gruppo considerato nemico. Nelle aree di conflitto è diventato molto frequente che gli attacchi militari controllati da remoto danneggino o uccidano civili, tra cui bambini. Si possono solo fare congetture sull'esito finale di un'azione militare intrapresa con tanta indifferenza, senza alcun pensiero nei confronti dell'umanità degli avversari o del loro diritto di esistere.
Gli orrori che derivano dai drammatici progressi della tecnologia militare combinati con una tale ideologia eliminazionista non solo contraddicono letteralmente la Legge umanitaria internazionale, ma a livello più essenziale sono inammissibili alla luce di un sentiero di umanità.
L'anno scorso le Nazioni Unite hanno avviato un dibattito sulla minaccia rappresentata dai Sistemi di armi letali autonome (Lethal Autonomous Weapon Systems, LAWS), o "robot assassini". Dobbiamo avere la chiara consapevolezza del fatto che ci troviamo alle soglie di un'automazione della guerra su larga scala.
Allo stesso tempo dovremmo riconoscere che le ideologie eliminazioniste non sono limitate alle aree di conflitto ma si sono radicate in vari luoghi nel mondo. Nel dicembre del 2013 le Nazioni Unite hanno lanciato l'iniziativa Human Rights Up Front (Diritti umani prima di tutto), che invita a prestare la massima attenzione alla pericolosità implicita nelle violazioni dei diritti umani individuali e a reagire prima che si trasformino in atrocità di massa o crimini di guerra.
L'incitamento all'odio, ad esempio, sta diventando un serio problema sociale in molte nazioni. Anche quando non porta alla violenza diretta dei cosiddetti "crimini dell'odio", esso nasce dallo stesso istinto maligno di fare male ad altri e come tale è una violazione dei diritti umani che non può essere ignorata. Nessuno giudicherebbe accettabile la violenza o l'oppressione sulla base di un pregiudizio verso qualche persona o la sua famiglia. Ma quando sono dirette verso altre etnie o popolazioni, non è insolito che le persone le considerino giustificate in base a qualche difetto o mancanza da parte delle vittime.
Per evitare che situazioni del genere si aggravino, il primo passo è sviluppare modalità per incontrarsi faccia a faccia con l'altro liberi da simili psicologie collettive.
A questo scopo è istruttivo un episodio del Sutra Vimalakrti che descrive le interazioni tra Shariputra, discepolo di Shakyamuni, e una divinità femminile.
Shakyamuni esortò il suo discepolo Manjushr a far visita alla casa del credente laico Vimalakrti, che soffriva di una malattia. Un altro dei suoi principali discepoli, Shariputra, decise di accompagnarlo. La visita fu caratterizzata da un'ampia discussione tra Manjushr e Vimalakrti sugli insegnamenti del Budda. Quando questa discussione raggiunse il culmine, una dea presente tra gli uditori cosparse di fiori tutti i presenti, esprimendo così la sua gioia.
Shariputra, affermando che quei petali di fiori non erano appropriati per un praticante della Via, tentò di scrollarseli di dosso, ma gli rimasero attaccati. Di fronte a ciò, la dea disse: «I fiori non hanno una coscienza discriminatoria; tu però fai discriminazioni tra le persone», sottolineando così gli attaccamenti che condizionavano Shariputra.
Shariputra riconobbe la verità delle parole della dea, ma poiché insisteva sulla questione lei usò i suoi poteri magici per dare il proprio aspetto a Shariputra e quello di lui a se stessa. Continuò a sottolineare a un perplesso Shariputra la profondità della sua coscienza discriminatoria e poi restituì a entrambi l'aspetto originario. Grazie a questa serie stupefacente di eventi, Shariputra si rese conto che non dobbiamo permettere che il nostro cuore venga catturato dalle apparenze esterne e che tutte le cose non hanno forma o caratteristiche fisse.

Il Sutra Vimalakrti
Il Sutra Vimalakrti è un sutra buddista mahayana. Vimalakrti, il protagonista del sutra, era un cittadino ricco e illustre di Vaishl all'epoca di Shakyamuni. Si pensa che Vaishl fosse situata nell'attuale stato indiano nordoccidentale del Bihar. Vimalakrti padroneggiava le dottrine mahayana ed era abile nell'insegnarle agli altri. Rappresenta il credente laico mahayana ideale.
Il sutra riporta vari episodi nei quali Vimalakrti dimostrava una comprensione degli insegnamenti buddisti migliore dei dieci maggiori discepoli di Shakyamuni.
Tra gli insegnamenti che il sutra espone ci sono l'ideale del bodhisattva, cioè il non creare alcuna distinzione tra sé e gli altri, e la non dualità o unità di fenomeni in apparenza diametralmente opposti come la vita e la morte, il bene e il male.

Ciò che ritengo significativo qui è come lo scambio di aspetto consentì a Shariputra di diventare profondamente consapevole dello sguardo discriminatorio che aveva riservato alla dea, e di conseguenza fu in grado di rendersi profondamente conto del suo errore.
Con il progredire della globalizzazione, un numero sempre maggiore di persone si sposta oltre frontiera e molti, attraverso l'esperienza di viaggiare o di vivere in un altro paese, sono stati costretti a riconoscere quel tipo di sguardo discriminatorio che avevano gettato inconsapevolmente su altri gruppi quando vivevano nel loro paese di origine. Questo rende ancora più importante che le persone si allenino a comprendere gli altri e a vedere le cose attraverso i loro occhi.
Senza questi sforzi, in particolare in periodi di elevate tensioni, è fin troppo facile che le nostre idee personali di cosa sia la pace o la giustizia diventino una minaccia per la vita e la dignità di altre persone. Ecco perché il rovesciamento di prospettiva sperimentata da Shariputra è così importante: ci porta a vedere la minaccia implicita nello sguardo che rivolgiamo agli altri. Ci invita a immaginare attivamente le minacce avvertite dagli altri per se stessi e le loro famiglie e rovescia le nostre supposizioni e affermazioni.
Quando Shariputra fu incoraggiato da Shakyamuni a far visita al sofferente Vimalakrti, la sua reazione iniziale fu di esitazione, e quando arrivò con Manjushr all'inizio fu preoccupato del fatto di non avere un posto dove sedersi. Da parte sua Vimalakrti, quando Manjushr gli chiese la causa della sua malattia, rispose: «Poiché tutti gli esseri viventi sono malati, sono malato anch'io», e continuò a dire ai suoi visitatori che avrebbero potuto esprimere la loro sincera preoccupazione per il suo benessere prendendosi cura e incoraggiando altre persone che soffrivano di una malattia. Così, mentre Shariputra era concentrato a occuparsi in maniera ossessiva di se stesso, Vimalakrti era concentrato sulla realtà della sofferenza sperimentata da tutte le persone a prescindere dalle circostanze e dalla distinzione tra sé e gli altri.
Quando osserviamo la situazione attuale nel mondo attraverso le lenti del contrasto descritto in questo sutra, possiamo trarre la seguente lezione: pace e giustizia dovrebbero essere sentite come un bene comune, ma quando vengono considerate "beni divisibili" a causa di un eccessivo attaccamento all'io possono servire a giustificare violenza e oppressione nei confronti di altri gruppi con cui ci troviamo in conflitto.
Ecco perché la chiave per alleviare la sofferenza umana si trova nell'allargare la solidarietà tra le persone sulla base di una preoccupazione condivisa per le minacce che incombono su tutti noi - come l'incidenza crescente di fenomeni atmosferici estremi che accompagnano il cambiamento climatico o le catastrofi causate dall'uso di armi nucleari.
L'unica cosa che chiunque di noi può fare in qualunque momento per contribuire a creare questa solidarietà è generare una rete più ampia di amicizia attraverso il dialogo. Nel corso del nostro confronto su Islam e Buddismo, il defunto presidente indonesiano Abdurrahman Wahid (1940-2009) sottolineò che il dialogo dona un volto umano a coloro che provengono da contesti etnici, culturali o storici diversi. Grazie a incontri e a interazioni costanti entriamo in armonia con i racconti della vita degli altri, e pur riconoscendo e apprezzando la grande importanza di caratteristiche come la religione o l'appartenenza etnica, non permettiamo che esse diventino gli unici oggetti del nostro scambio. Il sentire comune e la fiducia alimentati da tali incontri generano melodie peculiari che possono essere armonizzate solo da quelle due esistenze. Credo che questi siano il vero valore e il significato dell'amicizia, per dirla con le parole dello storico Arnold J. Toynbee (1889-1975): «Questi frammenti del mondo reale sono spigolature dal valore inestimabile».23
L'amicizia cresce libera quando ci rifiutiamo di preoccuparci eccessivamente delle nostre caratteristiche e vediamo invece l'altro nella luce brillante della sua umanità. A partire dal mio dialogo con Arnold Toynbee quarantatré anni fa, ho avuto il privilegio di avviare scambi con figure di primo piano provenienti dai più diversi ambiti culturali, etnici, religiosi e nazionali. Il punto di collegamento è sempre stato la preoccupazione condivisa per il futuro degli esseri umani, e attraverso i nostri dialoghi abbiamo costruito amicizie profonde e appaganti.
I membri della SGI, grazie alle amicizie e agli scambi individuali, hanno lavorato per realizzare il passaggio da una cultura di guerra dominata da ideologie di esclusione a una cultura di pace in cui le differenze sono apprezzate come fonte di diversità umana e c'è un desiderio comune di difendere la dignità dell'altro.
Promuovendo scambi culturali ed educativi abbiamo creato opportunità per persone di regioni e paesi diversi di incontrarsi faccia a faccia, di costruire la fiducia e di espandere l'amicizia. Abbiamo sperato che tali legami di amicizia controbilanciassero la tendenza all'insorgere di ideologie xenofobe, in particolare in periodi di maggiore tensione tra gli Stati. In questo modo abbiamo cercato di costruire società solide, resistenti alle forze negative della psicologia collettiva. Anche quando le relazioni politiche o economiche si sono raffreddate, abbiamo lavorato per mantenere aperti i canali del dialogo e della comunicazione, uno sforzo che si è protratto attraverso le generazioni.
L'anno scorso l'Associazione concertistica Min-On, che ho fondato nel 1963, ha creato il Min-On Music Research Institute. Basandosi sui cinquant'anni di esperienza del Min-On nella promozione degli scambi culturali e musicali con compagnie e istituzioni in centocinque paesi, questo nuovo istituto di ricerca ha lo scopo di esaminare il ruolo e il potenziale della musica e delle arti - il potere della cultura - nella creazione della pace.
Inoltre, grazie a incontri interreligiosi e interculturali promossi da diverse organizzazioni nazionali della SGI, abbiamo cercato di condividere esperienze su come spezzare cicli di odio e violenza fortemente radicati. Decidendo di partire dall'obiettivo di alleviare la sofferenza umana, abbiamo messo sul tappeto preoccupazioni comuni per far emergere la saggezza presente all'interno di ogni tradizione culturale e religiosa e chiarire le norme etiche e comportamentali che possono farci uscire da vicoli ciechi.
Le seguenti parole pronunciate nel 1996 dal defunto presidente ceco Václav Havel (1936-2011) sono in linea con questo discorso: «L'unico compito significativo per l'Europa del prossimo secolo è quello di essere il meglio che può essere, cioè di risorgere e permeare la sua vita delle sue migliori tradizioni spirituali, aiutando così a forgiare creativamente un nuovo modello di coesistenza globale».24 Qui, se al posto di "Europa" mettiamo la nostra civiltà o la nostra religione, possiamo considerare l'appello di Havel come un modello per il tipo di dialogo che cerchiamo. Attraverso il dialogo condividiamo l'energia vitale della parte migliore nelle nostre rispettive tradizioni spirituali, affiniamo la visione che ci permette di sperimentare la pienezza della nostra umanità e impariamo ad avviare un'azione condivisa sulla base del nostro io migliore. Questo è il vero valore del dialogo interreligioso e interculturale.
Grazie a tutte queste attività abbiamo cercato di aiutare le persone a rifiutarsi di essere complici nella violenza e nell'oppressione, a potenziare il fascino di un'etica di coesistenza e a costruire baluardi contro la guerra. Abbiamo lavorato per forgiare una solidarietà umana basata sulla determinazione condivisa di evitare che quell'infelicità che non augureremmo mai a noi stessi fosse sperimentata da qualcun altro.
Nel sutra Vimalakrti c'è una scena che descrive la comparsa di una tenda ingioiellata che copre il mondo intero. Cinquecento giovani si erano riuniti intorno a Shakyamuni, ognuno stringeva il proprio parasole ingioiellato. Questa splendida tenda apparve alla vista quando i singoli parasoli tenuti dai giovani si unirono per un attimo, rappresentando il loro desiderio di creare una società di coesistenza pacifica. I parasoli non servivano più solo a proteggerli singolarmente dal vento, dalla pioggia o dai raggi cocenti del sole. Quei giovani, che avevano percorso il loro cammino personale nella vita, si elevarono al di sopra delle loro differenze individuali in una sola determinazione condivisa, e fu questo a generare quella vasta tenda protettiva che io considero un simbolo meraviglioso delle possibilità infinite della solidarietà umana.
Credo che una solidarietà di questo genere sia espressa anche nei nuovi obiettivi di sviluppo internazionale che le Nazioni Unite adotteranno con scadenza nell'anno 2030 - la determinazione di proteggere la vita e la dignità delle persone sulla Terra da ogni forma di minaccia e infelicità - ed è grazie a questa solidarietà che tali obiettivi troveranno realizzazione.

L'evoluzione creativa delle Nazioni Unite
A questo punto vorrei avanzare alcune proposte specifiche su questioni che richiedono urgentemente un approccio creativo che, se vogliamo davvero eliminare l'infelicità dalla faccia della Terra, deve andare oltre l'ambito del consueto modo di pensare.
Ripensando ai sette decenni di storia delle Nazioni Unite mi vengono in mente le parole che il secondo segretario generale Dag Hammarskjöld (1905-61) pronunciò nella sua relazione annuale del 1960: «Le Nazioni Unite sono una creazione funzionale alla situazione politica che la nostra generazione si trova ad affrontare. Allo stesso tempo, tuttavia, la comunità internazionale è arrivata per così dire a un'autocoscienza politica nell'Organizzazione e, quindi, può usarla in maniera significativa per influenzare quelle stesse situazioni che hanno portato alla creazione dell'Organizzazione».25
Nonostante i vincoli e i limiti strutturali che incontra in quanto organizzazione composta da Stati sovrani, l'ONU negli anni ha alimentato e nutrito l'autocoscienza della comunità internazionale ed è questo che può fornirle lo slancio per realizzare la sua missione originaria.
In effetti, grazie agli sforzi per realizzare lo spirito della Carta, le Nazioni Unite hanno influenzato le politiche dei governi predisponendo con chiarezza una serie di princìpi che nessuna nazione dovrebbe sovvertire. Un esempio è la Dichiarazione universale dei diritti umani (UDHR).
Jacques Maritain (1882-1973), il filosofo francese che fu profondamente coinvolto nel processo di stesura della Dichiarazione, sottolineò che anche persone con concezioni teoriche opposte possono arrivare a un accordo pratico in relazione a una serie di diritti umani.26 I redattori della Dichiarazione non avrebbero potuto raggiungere l'unanimità a partire dai loro differenti presupposti ideologici e culturali se non fosse stato per il potere della piattaforma comune fornita dalle Nazioni Unite.
Negli anni le Nazioni Unite hanno attirato l'attenzione dei cittadini su questioni urgenti formulando concetti quali "sviluppo sostenibile" e "sicurezza umana" e indicendo Anni internazionali e Decenni delle Nazioni Unite. Hanno anche stabilito provvedimenti internazionali per contrastare la violenza contro le donne e il lavoro minorile, problemi seri che altrimenti non avrebbero ricevuto probabilmente la dovuta attenzione nei contesti nazionali.
L'ambito delle tutele che garantiscono la vita e la dignità delle persone è stato costantemente ampliato, rendendo la legge internazionale applicabile non solo agli Stati ma anche alle persone singole, costruendo un "consenso sovrapposto" su tali questioni e concentrando l'attenzione sui problemi che affliggono gli oppressi. Credo che solo le Nazioni Unite possano giocare un ruolo così indispensabile.
Adottando una nuova serie di obiettivi di sviluppo per affrontare le sfide che abbiamo di fronte con un mandato più ambizioso di quello degli MDG, dovremmo lavorare insieme per una evoluzione creativa delle Nazioni Unite con lo spirito di affrontare i nostri problemi «senza la corazza di convinzioni ereditate o di formule prestabilite»,27 per usare le parole di Hammarskjöld.
In quello che potrebbe essere visto come un evento precursore di tale impegno, nel giugno del 2014 si è tenuta a Nairobi, in Kenya, l'Assemblea ambientale inaugurale delle Nazioni Unite, con la partecipazione di tutti gli Stati membri, come parte della riforma strutturale del Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP). Erano presenti un gran numero di stakeholder [con il termine stakeholder, o "portatore di interesse", si individua un soggetto o un gruppo di soggetti influenti nei confronti di un'iniziativa economica, sia essa un'azienda o un progetto, n.d.r.] inclusi rappresentanti di organizzazioni della società civile impegnate in questioni ambientali ed esponenti del mondo degli affari.
Ho costantemente sottolineato l'importanza di due prerequisiti per la risoluzione dei problemi globali: la partecipazione di tutti gli Stati e la collaborazione tra Nazioni Unite e società civile. Per affrontare non solo le sfide ambientali ma ogni genere di minaccia alla vita e alla dignità delle persone occorre sviluppare un'azione condivisa che sia sostenuta da questi due pilastri. Questo, io credo, dovrebbe stare al centro dell'evoluzione creativa delle Nazioni Unite, che quest'anno celebrano il settantesimo anniversario.
In considerazione della missione delle Nazioni Unite vorrei formulare proposte specifiche in tre ambiti in cui credo ci sia un bisogno urgente di azione condivisa per eliminare la parola infelicità dal lessico umano:
1. la protezione dei diritti umani di profughi e migranti internazionali;
2. il divieto e l'abolizione delle armi nucleari;
3. la realizzazione di una società globale sostenibile.

Proteggere i diritti umani dei profughi
Il primo ambito di azione condivisa è quello della protezione dei diritti umani di rifugiati, profughi e migranti internazionali. Vorrei proporre l'inserimento di misure protettive specifiche per i diritti e la dignità di tutte queste persone negli SDG, la cui adozione da parte dell'Assemblea Generale è prevista per il prossimo autunno.
Come ho menzionato prima, ciò che il mio maestro Josei Toda aveva in mente quando espresse il desiderio di eliminare l'infelicità dal mondo era il grande numero di rifugiati e la loro inesprimibile sofferenza dopo la rivolta ungherese del 1956.
Fu la teorica politica Hannah Arendt (1906-75) a definire il ventesimo secolo il secolo dei rifugiati. La pensatrice scrisse: «Qualcosa di più fondamentale della libertà e della giustizia, che sono i diritti dei cittadini, è a rischio quando appartenere alla comunità in cui si nasce non è più una conseguenza naturale e il distacco da essa non è una questione di scelta».28
La base della dignità umana è l'esistenza di un mondo in cui possiamo sperimentare ed esprimere pienamente la nostra identità; essere tagliati fuori da questo mondo e da tutti i diritti umani a esso associati è la causa della sofferenza dei profughi.
L'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (ACNUR, UNHCR) fu creato in origine nel 1950 come agenzia temporanea, con il mandato di proteggere i rifugiati in Europa all'indomani della seconda guerra mondiale. Oltre alla fiumana di rifugiati causata dalla rivolta ungherese, altre situazioni di crisi si delinearono in Asia, in Africa e in altre parti del mondo, imponendo la ripetuta estensione del mandato dell'UNHCR. Nel 2003 l'Assemblea Generale adottò una risoluzione che rimosse «il limite temporale sulla proroga dell'ufficio [...] fino a quando il problema dei rifugiati non sia risolto».29
L'UNHCR ha dato importanti contributi all'assistenza ai rifugiati, e la SGI si è adoperata in molti modi per sostenere queste attività. Ma nel mondo odierno, sempre più caotico, il problema dei rifugiati resiste ostinatamente a ogni soluzione: attualmente ci sono cinquantuno milioni duecentomila persone tra rifugiati, sfollati all'interno del proprio paese o richiedenti asilo, metà dei quali hanno meno di diciotto anni.30
Particolarmente preoccupanti sono le situazioni dei rifugiati che si protraggono nel tempo, i casi in cui l'allontanamento forzato dal paese di origine dura da cinque anni o più. Queste persone rappresentano oltre la metà dei rifugiati interessati dal mandato dell'UNHCR, con un periodo medio di trasferimento forzato pari a vent'anni.31 Ciò significa che non solo questi individui, ma anche i loro figli e nipoti potrebbero essere costretti a vivere in una situazione politica, economica e sociale estremamente instabile.
Altrettanto allarmante è il problema della condizione di apolide, che si stima riguardi più di dieci milioni di persone nel mondo.32 Essere apolide significa vedersi negare servizi come l'assistenza sanitaria e l'istruzione, o in alcuni casi essere costretti a nascondere il proprio status e a vivere nell'ombra per proteggere la propria famiglia. Sempre più bambini i cui genitori sono fuggiti dalla violenza e dalla violazione dei diritti umani sono nati apolidi, senza la possibilità di accedere a documenti legali. Nel novembre del 2014 l'UNHCR ha lanciato una campagna globale per eliminare lo status di apolide nei prossimi dieci anni.
Nel suo lavoro del 1903, La geografia della vita umana, Tsunesaburo Makiguchi dichiarò che l'identità delle persone si può sviluppare su tre livelli: come cittadini di una comunità locale in cui è radicata la loro vita, come cittadini di una comunità nazionale entro i cui confini si svolge la loro vita sociale e come cittadini di una comunità globale grazie alla consapevolezza della propria connessione con il mondo. Egli sottolineò che il potenziale peculiare dell'individuo potrebbe trovare la sua massima espressione nel momento in cui si sviluppa questo tipo di identità su più livelli.
In questo senso, condizioni di rifugiato o di apolide protratte nel tempo non solo negano agli individui l'opportunità di partecipare alla vita sociale della nazione, ma impediscono loro anche di costruire legami con i vicini nelle comunità locali e di intraprendere azioni condivise con persone di altre nazioni per creare quel tipo di mondo in cui desiderano vivere. In altre parole, viene loro negata la possibilità di essere pienamente se stessi.
È necessario che l'obiettivo di sollevare queste persone dalla sofferenza sia un punto chiave dell'evoluzione creativa delle Nazioni Unite, se si vuole realizzare l'inclusività di "tutte le persone in ogni luogo" perseguita nei nuovi SDG. E questo obiettivo è in pieno accordo con l'ideale dei diritti umani universali cui con tanta forza la Dichiarazione ambisce.
Allo stesso modo, la situazione dei diritti umani dei duecentotrentadue milioni di migranti internazionali nel mondo richiede un'attenzione immediata.
Nelle nazioni sottoposte a una prolungata recessione economica e a un inasprito malcontento sociale si ha una tendenza crescente a considerare i lavoratori immigrati in una luce negativa e a sottoporli, insieme alle loro famiglie, a discriminazione e ostilità. Di conseguenza le loro opportunità di impiego regolare e i loro diritti all'istruzione e all'assistenza medica potrebbero risultare fortemente limitati, e fin troppo spesso la società chiude un occhio sul trattamento iniquo che subiscono nel quotidiano.
Poiché i lavoratori migranti e le loro famiglie vengono sempre più emarginati e isolati, le Nazioni Unite hanno avviato iniziative per controbilanciare incomprensioni e pregiudizi. In occasione del Dialogo di alto livello su migrazione internazionale e sviluppo, tenutosi nell'ottobre del 2013, i governi hanno convenuto che l'importante relazione tra migrazione e sviluppo dovrebbe trovare riscontro nei nuovi SDG.
Vorrei qui proporre che tale questione non sia considerata solo nell'ambito dello sviluppo, ma che l'obiettivo di proteggere la dignità e i diritti umani fondamentali dei lavoratori migranti e delle loro famiglie sia espressamente incluso negli SDG, ponendo in risalto l'obiettivo di alleviare la sofferenza che si trovano ad affrontare.
Le politiche messe a punto per proteggere i migranti internazionali devono essere rafforzate. Ciò dovrebbe includere, ma non limitarsi, alle piattaforme esistenti: la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (che fu adottata nel dicembre del 1990 ma ratificata solo da un numero limitato di nazioni) e l'Agenda per un lavoro dignitoso sviluppata dall'Organizzazione internazionale per il lavoro.
Vorrei inoltre proporre lo sviluppo di meccanismi grazie ai quali le nazioni confinanti possano lavorare insieme per l'empowerment dei profughi, in particolare in regioni che hanno accolto un grande numero di rifugiati.
Oltre ai conflitti armati, negli ultimi anni disastri naturali ed eventi climatici estremi hanno costretto molte persone a lasciare le loro case e a cercare un rifugio. In questo contesto, vorrei attirare l'attenzione sulle consultazioni regionali in vista del Vertice umanitario mondiale che si terrà a Istanbul, in Turchia, nel 2016, che mira a esplorare le modalità con cui la comunità globale può unirsi al meglio per affrontare le crisi umanitarie causate da conflitti, povertà, disastri naturali ed eventi climatici estremi.
La consultazione regionale tenutasi nel luglio del 2014 a Tokyo ha dato particolare rilievo al tema della reazione ai disastri. È stata costantemente sottolineata l'importanza di dare alle persone colpite da disastro un ruolo centrale nel processo umanitario, insieme alla necessità di impegnarsi per il loro empowerment affinché possano vivere con dignità.
Questo è stato l'approccio adottato anche dalla SGI durante l'assistenza al recupero delle comunità colpite da disastri naturali. Le persone che hanno sperimentato in prima persona una profonda sofferenza riescono a capire meglio e a condividere i dolori degli afflitti. Queste reti di empatia possono fornire un sostegno inestimabile alle persone bisognose e possono far sgorgare dall'interno la volontà di andare avanti.
La Terza conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla riduzione del rischio di catastrofi è prevista a Sendai, nel Giappone nordorientale, a marzo 2015, nel quarto anniversario del terremoto e dello tsunami dell'11 marzo 2011. Tra gli eventi collaterali, la SGI sarà cosponsor del simposio "Rafforzare la resilienza nell'Asia nordorientale attraverso la cooperazione per la riduzione del rischio di catastrofi", in cui rappresentanti della società civile provenienti da Cina, Corea del Sud e Giappone esploreranno le possibilità di una collaborazione più stretta nel settore della prevenzione e del recupero post disastro. Anche i giovani membri locali della Soka Gakkai organizzeranno un simposio sulla riduzione del rischio di catastrofi e sul ruolo dei giovani, e parteciperanno alle discussioni sul ruolo delle organizzazioni basate sulla fede nella riduzione di questo genere di rischi.
Tali eventi si focalizzeranno su come sviluppare empowerment nelle persone colpite da disastri, in modo che possano ricoprire un ruolo chiave nel rafforzare la resilienza della società, un processo altrettanto importante quando si tratta di assicurare la dignità e i diritti umani ai rifugiati che, in numero sempre maggiore, si ritrovano in dislocamento forzato per periodi prolungati. La natura fondamentale della sofferenza sperimentata dalle persone nelle crisi umanitarie rimane la stessa a prescindere dalla causa: vengono allontanate dalle loro case, le basi della loro esistenza sono distrutte. La cosa più importante è come queste persone possono scoprire nuove fonti di speranza.
Il fatto che più dell'ottanta per cento dei rifugiati nel mondo siano ospitati da paesi in via di sviluppo aumenta la rilevanza dei passi intrapresi in Africa per gestire la questione di un dislocamento forzato protratto. Grazie all'Unione Africana (AU) e alla Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale (Economic Community of West African States, ECOWAS) sono stati compiuti sforzi per costruire una piattaforma per la cooperazione regionale.
Un'interessante ricerca ipotizza che, di fronte a situazioni di dislocamento forzato prolungato in Africa, si ha un progresso nella "integrazione de facto" - come viene definita - quando le persone (1) non corrono il rischio di deportazione, (2) non sono confinate in campi, (3) sono in grado di procurarsi sostentamento e di nutrire se stesse e le proprie famiglie, (4) hanno accesso all'istruzione, alla formazione professionale e all'assistenza medica e (5) sono socialmente integrate nella comunità ospitante in occasione di cerimonie come i matrimoni e i funerali. La ricerca suggerisce che questo tipo di "integrazione de facto" può essere osservata in diverse regioni agricole.33
Seguendo l'appello lanciato dal Consiglio dei Ministri dell'ECOWAS nel maggio del 2008 per un trattamento equo tra rifugiati e altri cittadini dell'ECOWAS, ai profughi che vivevano in Nigeria e in altre zone furono rilasciati passaporti dalle nazioni d'origine. Di conseguenza molti di loro hanno potuto crearsi un nuovo status come lavoratori migranti, aprendosi una strada per stabilirsi ufficialmente nella nazione ospite.
Lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, che ho l'onore di considerare mio amico, ha dichiarato che usare l'immaginazione per mettersi nei panni di un altro è la base della giustizia.34 Io credo che una chiave per la risoluzione della questione dei rifugiati si possa trovare nello spirito dell'Africa, un continente con una lunga storia di movimenti popolari e una tradizione di tolleranza verso la gente di culture diverse.
Mi torna in mente la mia prima visita alla sede delle Nazioni Unite a New York nell'ottobre del 1960. Colpito dalla fresca energia dei rappresentanti delle nazioni africane diventate appena indipendenti, mi convinsi che il XXI secolo sarebbe stato il secolo dell'Africa.
La lotta per i diritti umani del defunto presidente sudafricano Nelson Mandela e il movimento di rimboschimento guidato dall'attivista ambientale kenyota Wangari Maathai (1940-2011) sono esempi di iniziative pionieristiche che possono annunciare l'arrivo di un intensamente desiderato XXI secolo di pace e umanitarismo che origina dall'Africa.
Nonostante le numerose difficoltà, le nazioni africane hanno continuato a esplorare modalità per affrontare il problema del dislocamento forzato grazie alla cooperazione regionale. Mentre le Nazioni Unite si preparano ad adottare una nuova serie di obiettivi di sviluppo, la saggezza e l'esperienza dell'Africa possono, nelle parole dell'attivista anti-apartheid sudafricano Steve Biko (1946-77), contribuire a «dare al mondo un volto più umano».35
Vorrei invitare a una maggiore cooperazione regionale - sulla falsariga dell'esempio africano - nella regione asiatico-pacifica, che ospita un gran numero di profughi, e nel Medio Oriente, dove si è verificato un forte incremento del numero di rifugiati a seguito della guerra civile siriana.
Tra le caratteristiche di simili iniziative, vorrei suggerire che i paesi ospiti confinanti collaborino per promuovere l'empowerment dei rifugiati. In particolare, vorrei proporre programmi regionali congiunti di empowerment grazie ai quali i progetti di assistenza educativa e professionale includano sia la popolazione di rifugiati che i giovani e le donne del paese ospitante. Ciò fornirebbe l'opportunità ai membri delle popolazioni dei rifugiati e del paese ospitante di sviluppare legami più profondi, creando un modello sostenibile per il supporto ai rifugiati e rafforzando la resilienza della regione nel suo insieme.

Abolire le armi nucleari
Il secondo ambito di azione condivisa che vorrei prendere in considerazione è la realizzazione di un mondo libero dalle armi nucleari.
La prima risoluzione presa alla sessione inaugurale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite appena insediata - nel gennaio del 1946 - riguardava il problema delle armi atomiche. Durante il precedente processo di stesura della Carta delle Nazioni Unite l'esistenza di tali armi doveva ancora diventare di pubblico dominio e le discussioni furono concentrate più sulla sicurezza che sul disarmo. Tuttavia, alla fine del giugno 1945, solo poco più di un mese dopo l'adozione della Carta, bombe atomiche furono sganciate sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Quando la notizia di questo spaventoso evento si diffuse in tutto il mondo, furono lanciati appelli sempre più incalzanti affinché le Nazioni Unite rispondessero prontamente alla nuova sfida.
Con quella risoluzione del 1946, che invitava «all'eliminazione dagli arsenali nazionali delle bombe atomiche e di tutte le altre principali armi adattabili alla distruzione di massa»,36 l'Assemblea Generale perseguì unanimemente l'eliminazione completa di quelle armi, senza eccezioni.
Questo richiamo finì quasi dimenticato in mezzo alle crescenti tensioni della guerra fredda. Tuttavia l'Appello di Stoccolma del 1950 raccolse milioni di firme in tutto il mondo e si disse abbia pesato sulla decisione di non usare le armi nucleari nella guerra di Corea, mentre nel 1957 furono create le Conferenze Pugwash37 da scienziati di entrambi gli schieramenti Est-Ovest per affrontare le minacce poste dalle armi nucleari. Queste e altre azioni della società civile alimentarono lo slancio verso una piattaforma legale internazionale sulle armi nucleari.
In aggiunta al monito rappresentato da incidenti come la Crisi dei missili di Cuba del 1962, che portò il mondo sull'orlo di una guerra nucleare, si arrivò alla fine al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT), che entrò in vigore nel 1970. I firmatari dell'NPT si impegnarono al perseguimento in buona fede del disarmo nucleare, un progetto ancora incompiuto avviato per la prima volta dalle Nazioni Unite ai suoi esordi. Oggi, però, quarantacinque anni dopo l'entrata in vigore di quel trattato, l'abolizione delle armi nucleari deve ancora trovare realizzazione e il progresso verso il disarmo ristagna.
Recentemente il movimento che invita a un mondo senza armi nucleari ha assunto una nuova forma. L'ottobre scorso centocinquantacinque paesi hanno firmato una Dichiarazione congiunta sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari. Grazie a questo documento, più dell'ottanta per cento degli Stati membri ha chiaramente espresso il desiderio comune che le armi nucleari non vengano mai usate, in nessuna circostanza.
Le conseguenze umanitarie dell'uso di armi nucleari sono state argomento di tre importanti conferenze internazionali, a cominciare dalla Conferenza sull'impatto umanitario delle armi nucleari del marzo 2013 a Oslo, in Norvegia, seguita dalle conferenze internazionali a Nayarit, in Messico, e più recentemente a Vienna, in Austria, il mese scorso [dicembre 2014, n.d.r.].
Tra le conclusioni emerse da questa serie di conferenze, credo siano particolarmente importanti i tre punti seguenti:

1. è improbabile che uno Stato o un organismo internazionale possa affrontare in maniera adeguata l'immediata emergenza umanitaria causata dallo scoppio di un'arma nucleare e fornire assistenza sufficiente alle persone colpite.
2. L'impatto dello scoppio di un'arma nucleare non rimarrebbe circoscritto ai confini nazionali ma causerebbe devastanti effetti a lungo termine e potrebbe persino minacciare la sopravvivenza del genere umano.
3. Gli effetti indiretti di uno scoppio includerebbero il blocco dello sviluppo socioeconomico e il caos ambientale, con conseguenze concentrate in particolare sui poveri e i vulnerabili.

Alla Conferenza di Vienna gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che partecipavano per la prima volta, hanno riconosciuto pubblicamente il complesso dibattito in corso sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari. Questa è la dimostrazione che le conseguenze dell'uso di una qualunque arma nucleare sono di tale portata che la realtà deve essere affrontata da tutti, compresi gli Stati dotati di armi nucleari.
Tuttavia quando si tratta di come procedere le opinioni sono divergenti. La maggioranza dei partecipanti alla Conferenza condivide l'opinione che l'unico modo certo per scongiurare le conseguenze devastanti dell'uso delle armi nucleari sia la loro abolizione. Al contrario, tra le nazioni che possiedono armi nucleari e i loro alleati è ben radicata l'idea che vada mantenuta la deterrenza e che il modo migliore per realizzare un mondo libero dalle armi nucleari sia un processo graduale.
Anche se queste due posizioni sembrano separate da un abisso che può apparire incolmabile, in realtà sono collegate da una preoccupazione comune fondamentale relativa all'impatto devastante delle armi nucleari. È una preoccupazione sentita sia da coloro che hanno sottoscritto la Dichiarazione congiunta sia da chi non l'ha fatto. Credo quindi sia importante partire da questa preoccupazione comune per cercare un'azione condivisa verso un mondo libero dalle armi nucleari.
Una volta compreso ciò, è fondamentale che gli Stati dotati di armi nucleari prendano in considerazione quale tipo di iniziativa sia necessaria per prevenire un danno irreparabile non solo per se stessi e i propri alleati, ma per tutte le nazioni.
Ora vorrei esaminare da vari punti di vista la natura inumana delle armi nucleari al di là della loro semplice potenzialità distruttiva. Sono questi aspetti che contraddistinguono le armi nucleari e le rendono fondamentalmente diverse da altri tipi di armamenti.
Il primo aspetto riguarda la gravità del loro impatto, ciò che sono in grado di annientare immediatamente.
Sono rimasto colpito da queste parole contenute nella Relazione e Sommario delle conclusioni della Conferenza di Vienna: «Come nel caso della tortura, che nega l'umanità ed è ora del tutto inaccettabile, la sofferenza causata dall'uso delle armi nucleari non è solo una questione legale, ma necessita di una valutazione morale».38 Questo richiamo riflette il punto che il mio maestro, Josei Toda, sottolineò nell'appello per l'abolizione delle armi nucleari che pronunciò nel settembre del 1957, in un momento in cui le tensioni della guerra fredda stavano crescendo e la corsa alle armi nucleari stava accelerando. In quella dichiarazione Toda argomentò: «Anche se nel mondo ha preso vita un movimento per la messa al bando degli esperimenti sulle armi atomiche, è mio desiderio andare oltre, affrontare il problema alla radice. Desidero rivelare e strappare gli artigli che si celano negli aspetti profondi di quelle armi».39
Il Buddismo insegna che la minaccia più seria alla dignità umana è il male che deriva dall'illusione fondamentale inerente a tutte le forme di vita, nota come paranirmitavasavarti-deva o Re demone del sesto cielo. Questa è una condizione che manifesta la volontà di ridurre all'insignificanza l'esistenza di ogni individuo e di privare la vita del suo significato più essenziale.

Il Re demone del sesto cielo
Il sesto cielo del mondo del desiderio, conosciuto anche come il cielo in cui si gode liberamente delle creazioni illusorie degli altri, è il cielo più elevato tra quelli presenti nel mondo del desiderio della cosmologia buddista. È qui che risiede paranirmitavasavarti-deva, il Re demone del sesto cielo, fiaccando la forza vitale degli altri e approfittando dei loro sforzi. Si dice che tormenti i praticanti del Buddismo per dissuaderli dalla loro pratica e impedire loro di ottenere l'Illuminazione.

Toda asseriva che quanto si cela nel profondo delle armi nucleari è la forma più estrema del male.
Egli spingeva dunque ad andare oltre la messa al bando degli esperimenti sulle armi nucleari e a rifiutare la logica della deterrenza nucleare, che si basa sull'essere pronti a sacrificare la vita di un grande numero di persone. Il rifiuto della logica della deterrenza è la soluzione fondamentale di fronte alla minaccia delle armi nucleari e deve essere perseguita in nome del diritto alla vita di tutte le popolazioni mondiali.
[Il fisico premio Nobel per la pace] Joseph Rotblat (1908-2005), che ricoprì a lungo un ruolo centrale nel Movimento Pugwash - nato nel 1957, lo stesso anno in cui Toda pronunciò la sua dichiarazione - una volta condivise con me questa valutazione: «Sono stati adottati due approcci verso le armi nucleari. Uno è l'approccio legale, l'altro è l'approccio morale. Toda, da persona religiosa, adottò il secondo».40
Esiste un assoluto divieto normativo contro la tortura, che ritiene tale azione ingiustificabile in qualunque circostanza. Allo stesso modo, è arrivato il momento di sfidare le armi nucleari da una prospettiva morale.
Dopo la seconda guerra mondiale, seguendo le orme degli Stati Uniti, l'Unione Sovietica ha sviluppato le proprie armi nucleari con successo; la Gran Bretagna, la Francia e la Cina hanno fatto lo stesso. La proliferazione di armi nucleari è proseguita persino dopo che il NPT è entrato in vigore, e lo stallo nucleare globale è visto ormai come una realtà immutabile e inamovibile all'interno della comunità internazionale. Alla base di ciò c'è la politica di deterrenza nucleare secondo la quale, in termini elementari, è accettabile l'idea di annientare una popolazione nemica anche a costo di dover sopportare come conseguenza danni di vasta portata.
Come svelò Toda, ciò va al di là di qualsiasi distinzione tra amico o nemico e nega immediatamente tutte le conquiste della società e della civiltà cancellando la prova di ognuna delle nostre vite e privando l'esistenza di significato.
Masaaki Tanabe, che guida un progetto per ricostruire immagini di Hiroshima prima della bomba atomica, dichiara: «Ci sono cose che non possono essere ricreate neppure con la più avanzata tecnologia di grafica computerizzata».41 Le sue parole illustrano lucidamente la natura insostituibile di ciò che è stato perduto.
Un mondo di deterrenza nucleare - un mondo reso sicuro dalla prospettiva di una distruzione imminente - rende ogni cosa fragile e accidentale. L'assurdità di questa situazione genera un nichilismo che ha un effetto profondamente corrosivo sulla società e la civiltà umana. Ciò non può essere tollerato.
Inoltre, come è stato discusso alla Conferenza di Vienna nel dicembre del 2014, c'è sempre il pericolo di una detonazione nucleare accidentale a causa di un errore umano, di un difetto tecnico o di un cyber-attacco. Non solo questo problema non è previsto all'interno della teoria della deterrenza, ma è un pericolo che aumenta in proporzione diretta al numero di nazioni che adottano o mantengono una politica di deterrenza nucleare.
Durante la Crisi dei missili di Cuba i leader di Stati Uniti e Unione Sovietica ebbero tredici giorni per cercare delle strade per sciogliere la crisi. Oggi, se un missile che porta una testata nucleare dovesse essere lanciato accidentalmente, potrebbero volerci solo tredici minuti prima che raggiunga l'obiettivo. Fuga o sgombero sarebbero impossibili, e la città e gli abitanti che si trovano nel suo mirino ne uscirebbero devastati.
Per quanto grande sia stato lo sforzo che le persone possono aver investito cercando di vivere esistenze felici e per quanto lungo sia stato l'arco di tempo attraverso il quale la loro cultura e la loro storia si sono sviluppate, tutto ciò perderebbe significato. È in questa inesprimibile assurdità che va trovata la natura inumana delle armi nucleari, a prescindere dalle misure quantificabili del loro enorme potere distruttivo.
Il secondo aspetto dell'inumanità delle armi nucleari che vorrei esaminare è la distorsione strutturale generata dal loro costante sviluppo e modernizzazione.
Alla Conferenza di Vienna l'impatto dei test nucleari è stato incluso per la prima volta in agenda. Il termine hibakusha viene usatooggi per tutti coloro che hanno sofferto di contaminazione da radiazioni causate dalle armi nucleari, e questo naturalmente include le persone colpite dai più di duemila test nucleari che sono stati eseguiti in tutto il mondo.
È stato stimato che la Repubblica delle Isole Marshall ha sperimentato un carico equivalente a 1,6 bombe della grandezza di Hiroshima ogni giorno per tutti i dodici anni in cui sono stati compiuti test nucleari.42 Questo fatto testimonia i reali effetti provocati dalla politica della deterrenza nucleare, nonostante essa rivendichi di aver tenuto lontano l'uso delle armi nucleari. In altre parole, la politica della deterrenza nucleare, dove alla minaccia si risponde con la minaccia, ha provocato una corsa agli armamenti nucleari e un numero enorme di esperimenti nucleari generando, come afferma il Ministro degli affari esteri delle Isole Marshall Tony de Brum, «un carico che nessuna nazione e nessuna popolazione dovrebbe mai sopportare».43
Dall'adozione del Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty, CTBT) nel 1996, il numero di test che implicano esplosioni nucleari è sceso quasi a zero. Tuttavia il fatto che il CTBT non sia entrato in vigore nonostante ci siano centottantatré firmatari rende fragile questa moratoria de facto.
Inoltre il CTBT non proibisce la modernizzazione delle armi nucleari, e finché persiste la politica della deterrenza nucleare sussiste un incentivo strutturale in base al quale una nazione sta dietro alla modernizzazione di un'altra con sforzi di modernizzazione personali. Si prevede che la spesa annuale relativa alle armi nucleari, che in tutto il mondo ha già raggiunto i centocinque miliardi di dollari, avrà un ulteriore incremento.44 Se questa somma enorme fosse destinata a migliorare la salute e il benessere negli Stati dotati di armi nucleari, e al supporto degli Stati in via di sviluppo dove la popolazione continua a lottare contro povertà e privazione, la vita e la dignità di un numero rilevante di persone ne risulterebbero rafforzate.
Continuare a sviluppare armi nucleari non solo va contro lo spirito dell'Articolo 26 della Carta delle Nazioni Unite, che invoca «la riduzione al minimo del dispendio di risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti», ma causa anche l'inumanità di perpetuare un ordine globale distorto a causa del quale persone le cui esistenze potrebbero essere facilmente migliorate sono costrette a vivere costantemente in condizioni pericolose e degradanti.
Il terzo aspetto dell'inumanità delle armi nucleari che vorrei toccare è come il mantenimento di una posizione nucleare obblighi le nazioni a una costante tensione militare.
Tra i punti di azione immediata individuati alla Conferenza di revisione del NPT nel 2010, gli Stati dotati di armi nucleari si sono impegnati a «diminuire ulteriormente il ruolo e il significato delle armi nucleari in tutte le concezioni, dottrine e politiche militari e di sicurezza».45 L'anno scorso è stata presentata una relazione sull'avanzamento di tali punti, ma i cambiamenti sono stati poco significativi. Molti leader degli Stati nucleari riconoscono che è estremamente difficile immaginare situazioni in cui potrebbero essere impiegate le armi nucleari e che per loro natura a gran parte delle minacce contemporanee non si può rispondere con le armi nucleari. Tuttavia l'adesione alle politiche di deterrenza nucleare impedisce la realizzazione di questo impegno al disarmo.
A questo punto può anche essere difficile che gli Stati dotati di armi nucleari si liberino completamente dalla preoccupazione di essere oggetto, essi stessi come i loro alleati, di un attacco nucleare. Nonostante tale preoccupazione, però, dovrebbe essere considerata prioritaria la graduale rimozione delle cause che stanno alla base delle tensioni e si dovrebbe lavorare per creare le condizioni in cui una reazione che includa l'uso di armi nucleari non sia più considerata l'unica opzione.
Come fu chiarito nel Parere consultivo della Corte internazionale di giustizia nel 1996, dovrebbe in genere essere considerato illegale non solo l'uso delle armi nucleari ma anche la minaccia di usarle.
Il giudice Luigi Ferrari Bravo, in una Dichiarazione allegata al Parere consultivo, ha commentato che «l'abisso che separa l'Articolo 2 del paragrafo 4 dall'Articolo 51 [della Carta delle Nazioni Unite] si è allargato in conseguenza del grande ostacolo della deterrenza che vi è stato inserito».46 Come si evince, il proseguimento della politica di deterrenza nucleare ha modificato la comprensione e la pratica del diritto all'autodifesa rispetto al modo in cui erano state concepite dai legislatori della Carta. Mentre l'Articolo 2 del paragrafo 4 stabilisce che la minaccia o l'uso della forza sono illegali per principio, l'esistenza delle armi nucleari ha reso necessari costanti preparativi per l'autodifesa individuale o collettiva, che nell'Articolo 51 sono definiti come misura temporanea da prendere finché il Consiglio di sicurezza non è pronto ad agire. Così, ciò che era una misura eccezionale è diventata pratica regolare, sovvertendo l'intento della Carta.
Persino dopo la fine della guerra fredda tale struttura non è cambiata. Anche senza scontro armato o ostilità tra le nazioni, la minaccia dell'uso di cui è premessa la deterrenza nucleare continua a creare tensioni militari che coinvolgono un grande numero di nazioni.
Gli Stati dotati di armi nucleari e i loro alleati finiscono vittime dell'ossessione della segretezza e della sicurezza per proteggere le informazioni riservate relative ai loro arsenali e alle relative attrezzature. Allo stesso tempo, gli Stati che si sentono minacciati da quelli dotati di armi nucleari sono incentivati a svilupparne anche loro e a perseguire l'espansione militare. Nel peggiore dei casi questa spirale conduce a prendere seriamente in considerazione un'azione militare preventiva.
La deterrenza nucleare è stata costantemente identificata dai suoi sostenitori come la chiave per prevenire l'uso di queste armi. Ma quando il quadro generale per la valutazione della natura delle armi nucleari si allarga a includere tutte le implicazioni della vita nell'epoca nucleare, l'enormità del carico imposto al mondo in conseguenza di queste politiche diventa dolorosamente chiaro.
Credo che il fatto che le armi nucleari non siano state usate in tempo di guerra dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki può essere attribuito più a una consapevolezza del peso della responsabilità per l'impatto umanitario devastante legato al loro impiego che a un qualunque effetto deterrente. Ed è un fatto che le nazioni che non si trovano sotto la protezione di un ombrello nucleare non sono mai state oggetto di minaccia di attacco nucleare. È il peso morale dell'impegno ad abbandonare l'opzione nucleare - per esempio grazie alla creazione di Zone Libere dalle Armi Nucleari (Nuclear-Weapon-Free Zones, NWFZ) in cui le nazioni rifiutano collettivamente di inseguire gli armamenti nucleari - che ha chiaramente segnato una linea che altri Stati ritengono di non poter attraversare.
Nella Conferenza di Vienna del mese scorso, alla luce delle inaccettabili conseguenze umanitarie e dei rischi associati alle armi nucleari, l'Austria ha formulato la promessa - nel suo ruolo di paese partecipante e non di paese ospite e di presidenza della Conferenza - di cooperare con tutti gli attori coinvolti, Stati, organizzazioni internazionali e società civile, per realizzare l'obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari.
Prima della conferenza, la Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari (ICAN), il Consiglio ecumenico delle chiese (WCC) e la SGI hanno organizzato all'interno di un Forum della società civile un comitato interconfessionale con praticanti del Cristianesimo, dell'Islam, dell'Induismo e del Buddismo per discutere una strada verso l'abolizione delle armi nucleari. Il risultato della discussione è stato riassunto in una Dichiarazione congiunta che esprime l'impegno dei partecipanti a lavorare per un mondo libero dalle armi nucleari. La Dichiarazione congiunta è stata presentata durante un dibattito alla Conferenza di Vienna come espressione della società civile.

Dichiarazione congiunta delle comunità di fede
Il comitato interconfessionale "Fedi unite contro le armi nucleari: accendere la speranza, raccogliere il coraggio" ha pubblicato una Dichiarazione congiunta in cui si impegna a continuare l'opera di sviluppare la consapevolezza dei rischi inaccettabili delle armi nucleari, di dare potere ai giovani e di sviluppare un dialogo tra le tradizioni di fede diverse e al loro interno per creare un mondo libero dalle armi nucleari. In una sezione si legge: «Le armi nucleari sono strumenti di terrore progettati per infliggere morte e distruzione su intere popolazioni, nazioni, la Terra stessa. [...] Le armi nucleari sono del tutto incompatibili con i valori sostenuti dalle nostre rispettive tradizioni di fede - il diritto delle popolazioni di vivere in sicurezza e dignità; i dettami della coscienza e della giustizia; il dovere di proteggere i vulnerabili e di amministrare la gestione del pianeta che lo tutelerà per le generazioni future».
http://www.sgi.org/assets/pdf/HINW14-Statement-Faith-Communities.pdf

La chiave per creare un'azione condivisa per un mondo libero dalle armi nucleari sta nel riuscire a concentrare l'energia di questi impegni nell'arco di quest'anno, il settantesimo anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki.
Ora vorrei proporre due iniziative specifiche.
La prima è lo sviluppo di un nuovo modello istituzionale per il disarmo nucleare basato sul Trattato di non proliferazione nucleare. Nel dicembre del 2014 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato un'importante risoluzione che sollecita gli Stati a esplorare, durante la Conferenza di revisione del NPT del 2015, «opzioni per l'elaborazione di misure efficaci [per il disarmo nucleare] immaginate e richieste dall'Articolo VI del Trattato».47
Dalla decisione del 1995 di estendere indefinitamente il NPT, l'implementazione dei vari accordi raggiunti ha fatto pochi progressi e le sfide continuano ad accumularsi. Questa risoluzione esprime il profondo senso di urgenza presente nei centosessantanove paesi che l'hanno sostenuta di fronte al protrarsi dello stallo intorno alle questioni che riguardano le armi nucleari.
Dato questo contesto, vorrei sollecitare i capi di governo di tutti gli Stati a partecipare alla Conferenza di revisione del NPT di quest'anno. Suggerisco anche di organizzare all'interno della Conferenza di revisione un forum nel quale poter condividere i risultati della Conferenza internazionale di Vienna sull'impatto umanitario delle armi nucleari.
Alla luce del fatto che alla Conferenza di revisione del 2010 tutte le parti del NPT hanno espresso unanimemente la loro preoccupazione riguardo alle conseguenze umanitarie catastrofiche dell'uso delle armi nucleari, spero che alla Conferenza di revisione di quest'anno ogni capo di governo o delegazione nazionale presenti il proprio piano di azione per evitare simili conseguenze. Insisto inoltre affinché la Conferenza stimoli il dibattito sulle misure efficaci per il disarmo nucleare che l'Articolo VI del NPT richiede, e che a questo scopo stabilisca un nuovo modello istituzionale.
Il NPT è concepito come se fosse costruito su tre pilastri: non-proliferazione, uso pacifico dell'energia nucleare e disarmo nucleare. Per i primi due obiettivi lavorano l'Organizzazione del Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization, CTBTO), attraverso la convocazione di vertici sulla sicurezza nucleare, e l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (International Atomic Energy Agency, IAEA). Al contrario, non esiste istituzione dedicata a un dibattito duraturo e al controllo del rispetto degli obblighi di disarmo del NPT.
Partendo dall'«inequivocabile impresa da parte degli Stati dotati di armi nucleari di realizzare l'eliminazione totale del loro arsenale nucleare per arrivare al disarmo nucleare», riaffermata alla Conferenza di revisione del 2000, propongo la creazione di una "commissione disarmo" come organo sussidiario al NPT per assicurare la pronta e concreta realizzazione di questo impegno.
Il NPT stabilisce che venga convocata una conferenza speciale per prendere in considerazione proposte di emendamento al Trattato, se richiesto da un terzo o più degli Stati sostenitori; la commissione disarmo del NPT potrebbe essere creata attraverso questo processo. Tale commissione opererebbe per riunire piani di disarmo e regimi di verifica per raggiungere il punto critico positivo del disarmo nucleare su vasta scala, verso un mondo libero dalle armi nucleari.
La seconda iniziativa che vorrei proporre riguarda l'adozione di una convenzione sulle armi nucleari. Benché sussistano varie sfide e compiti da svolgere, credo fermamente che il settantesimo anniversario dello scoppio delle bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki debba provocare uno slancio capace di avviare la negoziazione di una convenzione di questo tipo. Più specificamente, suggerisco di stabilire una piattaforma per queste negoziazioni basata su un'attenta valutazione del risultato della Conferenza di revisione del NPT di quest'anno.
Due anni fa le Nazioni Unite hanno convocato un Gruppo di lavoro aperto a tutti gli Stati membri (Open-Ended Working Group, OEWG) con lo scopo di elaborare progetti di negoziato sul disarmo nucleare multilaterale avente, come fine ultimo, quello di raggiungere e mantenere un mondo senza armi nucleari. Potremmo partire da questo gruppo e farlo diventare un forum per le negoziazioni che includa la partecipazione legalizzata della società civile.
Inoltre una risoluzione dell'Assemblea Generale del 2013 ha richiesto che venisse indetta, al più tardi entro il 2018, una conferenza internazionale ONU ad alto livello sul disarmo nucleare. Propongo che questa conferenza abbia luogo nel 2016 e che dia inizio al processo di stesura di una convenzione sulle armi nucleari. Spero vivamente che il Giappone, in quanto nazione che ha sperimentato l'uso delle armi nucleari in guerra, lavori con altri paesi e con la società civile per accelerare il processo di creazione di un mondo libero dalle armi nucleari.
La Conferenza delle Nazioni Unite sulle questioni del disarmo avrà luogo a Hiroshima in agosto, e il Forum delle vittime nucleari nel mondo si terrà a ottobre e novembre, sempre a Hiroshima. Allo stesso modo, a novembre si terrà a Nagasaki l'annuale Conferenza Pugwash.
È in via di pianificazione un summit mondiale dei giovani per l'abolizione delle armi nucleari da tenersi a Hiroshima a settembre come iniziativa congiunta della SGI e di altre ONG. L'anno scorso i membri giovani della Soka Gakkai in Giappone hanno raccolto cinque milioni centoventimila firme per petizioni che chiedevano l'abolizione delle armi nucleari. Spero che il summit adotti una dichiarazione dei giovani che si impegni a porre fine all'era nucleare e che contribuisca a sviluppare una solidarietà più ampia tra i giovani del mondo a sostegno di un trattato che proibisca le armi nucleari.
Nel nostro dialogo lo storico Arnold Toynbee sottolineò che la chiave per risolvere la questione delle armi nucleari si trova nell'adozione globale di un «veto autoimposto»48 relativo al possesso di tali armi. Il 21 gennaio di quest'anno gli Stati Uniti e Cuba hanno avviato le negoziazioni per ripristinare normali relazioni diplomatiche, che si interruppero l'anno prima della Crisi dei missili di Cuba. Riesaminando questa storia si potrebbe dire che la crisi fu risolta grazie all'utilizzo di un veto autoimposto - la decisione di astenersi dall'uso di armi nucleari - da parte degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica.
Il processo che immagino per giungere a un trattato per la messa fuori legge delle armi nucleari è quello in cui ogni paese si impegna in un simile veto autoimposto, e dove tali atti di autolimitazione vadano a formare un tessuto sovrapposto che introduce a una nuova era in cui i popoli di tutte le nazioni possano godere della certezza di non dovere mai sopportare gli orrori provocati dall'uso di armi nucleari.

Realizzare una società globale sostenibile
L'ultimo ambito di azione condivisa che vorrei affrontare è la costruzione di una società globale sostenibile.
Per rispondere a sfide ambientali come il cambiamento climatico dobbiamo condividere esperienze e lezioni acquisite, impegnandoci a evitare un peggioramento delle condizioni e a portare a termine la transizione verso una società senza sprechi. Questi sforzi saranno cruciali per il raggiungimento degli SDG, e qui vorrei sottolineare il ruolo indispensabile della cooperazione tra paesi confinanti per l'ottenimento di tale scopo.
In concreto invito Cina, Corea del Sud e Giappone a unirsi insieme per creare un modello regionale che incarni le migliori prassi da condividere con il resto del mondo, incluse quelle legate allo sviluppo del talento umano. Nel novembre dell'anno scorso si è tenuto il primo summit Cina-Giappone dopo due anni e mezzo. Avendo personalmente perseguito e lavorato a lungo per un'amicizia tra questi due paesi, sono stato profondamente soddisfatto di assistere a questo primo passo verso il miglioramento delle relazioni bilaterali dopo un prolungato periodo di gelo.
Sull'onda del summit, a dicembre è ripartito il Forum sul risparmio energetico Cina-Giappone, e il 12 gennaio di quest'anno hanno avuto luogo le consultazioni per la realizzazione di un Meccanismo di comunicazione marittima [cioè una linea diretta tra i vertici dei due Paesi, n.d.r.] tra Cina e Giappone. Questo meccanismo può giocare un ruolo cruciale nel prevenire un'escalation di incidenti di qualunque tipo, e spero che gli sforzi per iniziare le operazioni entro l'anno, come concordato dai leader dei due Stati, procedano senza intoppi.
Quest'anno segna il cinquantesimo anniversario della normalizzazione delle relazioni tra Corea del Sud e Giappone. Anche se persiste la necessità di allentare le tensioni tra le due nazioni, non dobbiamo perdere di vista il fatto che le interazioni tra i popoli hanno continuato ad ampliarsi, con circa cinque milioni di persone che oggi viaggiano ogni anno tra Corea e Giappone, un numero anche più grande di quello che coinvolge gli scambi tra Cina e Giappone. Nel 1965, quando si normalizzarono le relazioni bilaterali, la cifra annuale ammontava solo a diecimila persone. Anche se i sondaggi d'opinione pubblica rivelano che ampie percentuali di persone sia in Corea che in Giappone non nutrono un'opinione favorevole dell'altro paese, più del sessanta per cento riconosce l'importanza di una relazione tra i due Stati.
Oltre che da queste interazioni, mi aspetto molto da quelle forme di cooperazione trilaterale che sono state costantemente sviluppate negli ultimi dodici anni. Dal 1999, quando è iniziata la cooperazione trilaterale in ambito ambientale, ci sono oggi più di cinquanta meccanismi consultivi che includono diciotto incontri ministeriali e più di un centinaio di progetti cooperativi. Per incoraggiare un ulteriore sviluppo di questa cooperazione è importante che vengano ripristinati i summit trilaterali Cina-Corea-Giappone dopo l'interruzione di tre anni causata dalle accentuate tensioni politiche.
Mentre si avvicina l'adozione degli SDG, questi summit dovrebbero ripartire quanto prima per consolidare la tendenza al miglioramento delle relazioni, sviluppando un accordo formale per fare della regione un modello di sostenibilità. I leader delle tre nazioni dovrebbero celebrare il settantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale concretizzando la lezione di quel conflitto nella promessa di non entrare mai più in guerra e dovrebbero cominciare a impegnarsi per la costruzione di una solida fiducia reciproca grazie alla cooperazione regionale a sostegno della nuova sfida degli SDG intrapresa dalle Nazioni Unite.
Nei miei incontri con leader politici, intellettuali e culturali della Cina e della Corea, tra i quali il primo ministro cinese Zhou Enlai (1898-1976) e il primo ministro coreano Lee Soo-sung, ho discusso il modo in cui Giappone e Cina, come anche Giappone e Corea, possono approfondire i legami di amicizia per dare contributi duraturi al mondo.
Jean Monnet (1888-1979), che ebbe un ruolo chiave nell'aiutare Francia e Germania a superare la loro secolare animosità, durante i negoziati tra i paesi europei nel 1950 dichiarò: «Siamo qui per una sfida comune - per negoziare non a favore del nostro vantaggio nazionale ma per quello di tutti».49
Nel settembre del 2011 Cina, Corea e Giappone hanno creato un Segretariato per la cooperazione trilaterale che ha il compito, tra gli altri, di identificare potenziali progetti cooperativi. Spero che le tre nazioni lavorino insieme per il vantaggio di tutti in ogni singolo ambito stabilito nei nuovi SDG.
Come accennato in precedenza, la SGI sarà tra gli sponsor di un evento collaterale alla Terza conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla riduzione del rischio di catastrofi in cui rappresentanti della società civile delle tre nazioni si incontreranno per parlare di cooperazione regionale nell'ottica della prevenzione dei disastri e del recupero post-disastro. L'evento avrà luogo con il sostegno del Segretariato per la cooperazione trilaterale e sono sicuro che rappresenti il tipo di impegno positivo a livello di base che completerà la cooperazione regionale intergovernativa per la realizzazione degli SDG.
A questo riguardo vorrei fare due proposte per ampliare gli scambi tra la gente comune.
La prima pone al centro i giovani. Un momento di svolta fondamentale nelle relazioni postbelliche tra Francia e Germania fu rappresentato dal Trattato dell'Eliseo nel 1963, che inaugurò un'era di vasti scambi tra i giovani. «Un'inimicizia secolare può essere sostituita da una profonda amicizia».50 Questa frase è tratta da un articolo scritto nel 2013 a quattro mani dal Ministro degli Affari Esteri francese Laurent Fabius e da quello tedesco Guido Westerwelle per celebrare il cinquantesimo anniversario del Trattato dell'Eliseo. E in effetti i più di otto milioni di giovani che hanno avuto l'opportunità di vivere o studiare nell'altra nazione hanno giocato un ruolo fondamentale nella creazione di legami saldi tra le due società.
Otto anni fa fu avviato tra Cina, Corea e Giappone un programma di scambi tra giovani, e io spero che quest'anno sarà l'occasione per estendere ampiamente la portata di questo programma. Oltre ad aumentare gli scambi culturali o educativi come quelli tra gli studenti di liceo o di università, vorrei assistere alla creazione di una partnership giovanile Cina-Corea-Giappone attraverso la quale i giovani possano attivamente collaborare agli sforzi per realizzare gli SDG o altre iniziative di cooperazione trilaterale.
Per i singoli partecipanti, l'esperienza di lavorare insieme su sfide difficili come le questioni legate all'ambiente o ai disastri naturali ha un valore inestimabile, poiché imprime nelle loro giovani esistenze la fiducia di stare costruendo il proprio futuro. Inoltre, questi tesori di una vita sicuramente diventeranno la base di un'amicizia e di una fiducia che si protrarranno nel futuro.
Nei tre decenni dalla firma dell'accordo di scambio tra la Divisione giovani della Soka Gakkai e la Federazione giovanile cinese (ACYF) nel 1985, si sono avuti scambi regolari tra i ragazzi dei due paesi. Nel maggio del 2014 è stato siglato un nuovo accordo di scambio decennale, con la promessa di continuare a lavorare insieme per rafforzare l'amicizia tra le due nazioni. Da parte loro, i giovani membri della Soka Gakkai a Kyushu si sono impegnati in una vasta gamma di attività di scambio con la Corea. Tutte queste attività derivano dall'idea che le reti tra i giovani alimentate da incontri e scambi faccia a faccia siano in ultima analisi il fattore cruciale nella costruzione di un mondo più pacifico e umano nel XXI secolo.
La mia seconda proposta è quella di dare un grande impulso al numero di scambi tra città gemellate delle tre nazioni da qui al 2030, la data finale degli SDG.
Quando quarant'anni fa incontrai il primo ministro cinese Zhou Enlai, il nostro principale interesse comune era il rafforzamento delle relazioni amichevoli tra i cittadini delle due nazioni. Nel mio appello alla normalizzazione delle relazioni sino-giapponesi del settembre 1968 dichiarai: «La normalizzazione delle relazioni tra le nazioni sarà significativa solo quando i popoli di entrambe arriveranno a comprendersi e a interagire in modalità che apportino beneficio reciproco, contribuendo all'allargamento della pace nel mondo». In modo simile, il Primo Ministro Zhou riteneva che un'amicizia duratura tra Cina e Giappone si potesse realizzare solo quando i popoli dei due paesi si fossero capiti e si fossero fidati sinceramente l'uno dell'altro. Quando ci incontrammo, mi parlò della sua personale esperienza giovanile di un anno e mezzo trascorsa vivendo e studiando in Giappone, e io non ho potuto fare a meno di sentire che era stato questo a formare il suo punto di vista.
Nel 1916, l'anno prima che Zhou venisse a studiare in Giappone, il filosofo politico giapponese Sakuzo Yoshino (1878-1933) scrisse le seguenti parole di fronte al peggioramento delle relazioni sino-giapponesi: «Quando esistono fiducia e rispetto tra i cittadini, anche se sorgono ostilità o incomprensioni in merito a questioni politiche o economiche sarà come quando sulla superficie dell'oceano il vento provoca onde, ma lascia indisturbate le correnti profonde delle relazioni di amicizia».51
Queste parole esprimono una mia convinzione radicata nel tempo. Se persone di nazionalità diverse riescono a creare scambi nel profondo del cuore, condividendo l'interesse per la felicità dell'altro, il grande albero dell'amicizia che ne viene alimentato contrasterà vento e neve e protenderà i rami della sua crescita rigogliosa lontano nel futuro.
Attualmente ci sono trecentocinquantasei accordi di gemellaggio tra comuni di Cina e Giappone, centocinquantasei tra Giappone e Corea del Sud e centocinquantuno tra Cina e Corea del Sud. Dovremmo continuare ad allargare questi scambi di gemellaggio, nutrendo i fondamentali legami di amicizia individuali.

Il nostro spirito originario
Nello sviluppare queste proposte concrete sono stato profondamente consapevole del fatto che, alla fine, è la solidarietà delle persone comuni che spingerà il genere umano a vincere le sfide che ha davanti, come quelle che verranno affrontate attraverso i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG).
Esattamente quarant'anni fa, il 26 gennaio 1975, i rappresentanti di cinquantuno paesi si riunirono a Guam per fondare la SGI. In quel momento la visione del presidente Toda di una cittadinanza globale e la sua determinazione a eliminare l'infelicità dalla Terra mi erano perfettamente chiare. In quella conferenza inaugurale, quando decisi di scrivere "il mondo" accanto alla mia firma nella colonna "nazionalità", stavo esprimendo il giuramento di realizzare la visione del mio maestro.
La dichiarazione adottata in quella prima riunione espresse il nostro spirito di fondatori con queste parole: «Nella creazione della pace, i legami cuore a cuore tra le persone risvegliate alla santità della vita sono persino più forti dei legami economici e politici tra le nazioni. [...] Una pace duratura non può essere ottenuta senza la realizzazione della felicità di tutta l'umanità. Ci impegneremo quindi per fare dell'ideale buddista della compassione la base di un nuovo orientamento filosofico che ispiri un contributo concreto alla sopravvivenza e alla fioritura del genere umano».
Questo spirito rimane immutato anche oggi che il nostro movimento si è diffuso in centonovantadue paesi.
Radicati in una base sempre più estesa di amicizia e dialogo continueremo a lavorare per un mondo libero dalle armi nucleari e dalla guerra e per eliminare l'infelicità dalla faccia della Terra, per creare una società nuova in cui tutte le persone possano godere pienamente della benedizione della dignità umana.

(Traduzione di Cristina Proto)

Note

1) UN DESA (Dipartimento dell'Economia e degli Affari Sociali), "Open Working Group Proposal for Sustainable Development Goals" (Proposta del gruppo di lavoro aperto per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile), 2014, https//:sustainabledevelopment.un.org/focussdgs.html (ultimo accesso 09 marzo 2015).
2) J. Toda, Toda Josei zenshu (Opere complete di Josei Toda), 9 volumi, Seikyo Shimbunsha, Tokyo, 1981-90, vol. 3, p. 290.
3) M. L. King, The Trumpet of Conscience (La tromba della coscienza), Harper & Row, New York, 1967, p. 24.
4) J. Toda, op. cit., p. 74.
5) Papa Francesco, Evangelii gaudium: Esortazione Apostolica del Santo Padre Francesco ai Vescovi, al Clero, alle persone consacrate e ai laici sull'annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24 novembre 2013, Libreria Editrice Vaticana,
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/index.html (ultimo accesso 09 marzo 2015), par. 53.
6) H. Nakamura, Genshi butten o yomu (Leggere i primi sutra buddisti), Iwanami Shoten, Tokyo, 1985, p. 195.
7) Mahatma Gandhi, The Collected Works of Mahatma Gandhi (Opere complete di Mahatma Gandhi), 100 volumi, Publications Division, Ministry of Information and Broadcasting, Government of India, New Delhi, 1959-98, vol. 89, p. 125.
8) Nakamura, op. cit., p. 219.
9) T. Makiguchi, Makiguchi Tsunesaburo zenshu (Opere complete di Tsunesaburo Makiguchi), 10 volumi, Seikyo Shimbunsha, Tokyo, 1981-97, vol. 10, pp. 209-10.
10) D. Ikeda, A Forum for Peace: Daisaku Ikeda's Proposals to the UN ( Un forum per la pace: proposte di Daisaku Ikeda alle Nazioni Unite), a cura di Olivier Urbain, I. B. Tauris, London and New York, 2014, pp. 258-67.
11) Ibidem, pp. 195-98.
12) T. Makiguchi, op. cit., vol. 2, pp. 207-208.
13) D. Ikeda e E. Boulding, Into Full Flower (In piena fioritura), Dialogue Path Press, Cambridge, Massachusetts, 2010, p. 93.
14) NRC (Consiglio Norvegese per i rifugiati) e IDMC (Centro interno di monitoraggio del dislocamento), "Global Estimates 2014: People Displaced by Disasters" (Stime globali 2014: persone sfollate dai disastri), 2014, http://www.internal-displacement.org/assets/publications/2014/201409-global-estimates2.pdf (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 15.
15) K. Fujimori, "Teishotoku koreisha no jittai to motomerareru shotoku hosho seido" (Anziani con basso reddito e il necessario Sistema di sicurezza del reddito), 2012,
http://www.mizuho-ir.co.jp/publication/contribution/2012/nenkintokeizai01_01.html (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 25.
16) M. C. Nussbaum, Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 2006, p. 237, (trad. it. Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, 2007).
17) Nrada Maha Thera, The Dhammapada, capitolo 23, trad. 2002, http://www.metta.lk/english/Narada/23-Naga%20Vagga.htm (ultimo accesso 09 marzo 2015), cap. 23, 12:331.
18) Raccolta degli Insegnamenti orali, BS, 120, 53).
19) E. H. Erikson, Insight and Responsibility (Visione e Responsabilità), W. W. Norton, New York, 1964, p. 114.
20) E. H. Erikson, Childhood and Society, W. W. Norton, New York and London, 1950, pp. 266-67, (trad. it. Infanzia e Società, Armando Editore 1966).
21) E. H. Erikson, Gandhi's Truth: On the Origins of Militant Nonviolence, W. W. Norton, New York, 1969, pp. 407-08, (trad. it. La verità di Gandhi. Le origini della nonviolenza militante, Castelvecchi 2013).
22) N. Mandela, "Gandhi the Prisoner" (Gandhi il prigioniero), 1994, da B.R. Nanda, Mahatma Gandhi: 125 Years, New Delhi, 1995, Indian Council for Cultural Relations. South African History Online, http://www.sahistory.org.za/archive/gandhi-prisoner (ultimo accesso 09 marzo 2015).
23) A. J. Toynbee, East to West: A Journey Round the World (Da Oriente a Occidente: un viaggio intorno al mondo), Oxford University Press, New York and London, 1958, p. 221.
24) V. Havel, "Europe as Task: An Address in Aachen" (Europa come compito: un discorso ad Aquisgrana), 15 maggio 1996, http://www.vaclavhavel.cz/showtrans.php?cat=projevy&val=173_aj_projevy.html&typ=HTML (ultimo accesso 09 marzo 2015).
25) D. Hammarskjöld, "Introduction to the Annual Report of the Secretary-General on the Work of the Organization, 16 June 1959-15 June 1960" (Introduzione alla Relazione Annuale del Segretario Generale sul Lavoro dell'Organizzazione, 16 giugno 1959-15 giugno 1960), A/4390/Add.1, 31 agosto 1960,
http://daccess-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/NL6/006/48/PDF/NL600648.pdf?OpenElement (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 8.
26) J. Maritain, Man and the State, University of Chicago, Chicago, 1951, p. 76 (trad. it. L'uomo e lo Stato, Marietti, 2003).
27) D. Hammarskjöld, "Address at the Inauguration of the Twenty-fifth Anniversary of the Museum of Modern Art" (Discorso per l'inaugurazione del XXI Anniversario del Museo d'Arte Moderna), 1954, in A. W. Cordier e W. Foote (a cura di), Public Papers of the Secretaries-General of the United Nations, 8 volumi, Columbia University Press, New York, 1969-77, vol. 2, p. 375.
28) H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Orlando, Austin, New York, San Diego e London, 1973, p. 296 (trad. it. Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009).
29) UN General Assembly, "Implementing Actions Proposed by the United Nations High Commissioner for Refugees to Strengthen the Capacity of His Office to Carry Out Its Mandate" (Implementare le azioni proposte dall'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite per rafforzare la capacità del suo ufficio di svolgere il suo mandato), A/RES/58/153, Adottato dall'Assemblea Generale, 24 febbraio 2004, http://www.refworld.org/docid/4067da904.html (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 2.
30) UNHCR, (Alto Commissariato per I Rifugiati delle Nazioni Unite), "UNHCR Global Trends 2013", 20 giugno 2014, http://www.unhcr.org/5399a14f9.html (ultimo accesso 09 marzo 2015), pp. 2-3.
31) J. Milner e Gil Loescher. "Responding to Protracted Refugee Situations: Lessons from a Decade of Discussion" (Rispondere alle situazioni continuative dei rifugiati: lezioni da un decennio di discussione), RSC Policy Briefing Paper No. 6, Refugee Studies Centre, 2011, http://www.refworld.org/docid/4da83a682.html (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 3.
32) UNHCR, op. cit., p. 3.
33) K. Jacobsen, "The Forgotten Solution: Local Integration for Refugees in Developing Countries" (La soluzione dimenticata: integrazione locale per i rifugiati nei paesi in via di sviluppo), New Issues in Refugee Research Series, Working Paper No. 45, 1 luglio 2001, http://www.unhcr.org/3b7d24059.html (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 9; e A. Fielden, "Local Integration: An Under-reported Solution to Protracted Refugee Situations" (Integrazione locale: Una soluzione sottostimata per le situazioni prolungate dei rifugiati), New Issues in Refugee Research Series, Research Paper No. 158, giugno 2008, http://www.unhcr.org/486cc99f2.pdf (ultimo accesso 09 marzo 2015), pp. 6-12.
34) W. Soyinka, Yomiuri Shimbun, "Foramu 21 seiki e no sozo" (Forum: Creatività nel XXI secolo), 29 novembre 1995, p. 14.
35) S. Biko, I Write What I Like: A Selection of His Writings (Scrivo ciò che voglio. Scritti scelti), Heinemann, London, 1987, p. 47.
36) UN General Assembly, "Establishment of a Commission to Deal with the Problems Raised by the Discovery of Atomic Energy" (Creazione di una Commissione per gestire i problemi sollevati dalla scoperta dell'energia atomica), A/RES/1(I), adottato dall'Assemblea generale, 24 gennaio 1946, http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/1 (I) (ultimo accesso 09 marzo 2015).
37) Pugwash Conferences on Science and World Affairs.
38) Ministero federale austriaco per l'Europa, l'integrazione e gli affari esteri, "Report and Summary of Findings of the Conference: Presented under the Sole Responsibility of Austria" (Relazione e sommario delle conclusioni della conferenza: presentato dall'Austria sotto la sua sola responsabilità), Conferenza di Vienna sull'impatto umanitario delle armi nucleari, 9 dicembre 2014, http://www.acronym.org.uk/sites/default/files/HINW14_Chair_s_Summary.pdf (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 2.
39) J. Toda, op. cit., vol. 4, p. 565.
40) D. Ikeda e J. Rotblat, A Quest for Global Peace, I. B. Tauris, London, 2007, p. 52, (trad. it. Dialoghi sulla pace, Sperling & Kupfer, 2006).
41) M. Tanabe, Soka Shimpo, "Hiroshima, Nagasaki, Okinawa seinen-bu ga heiwa samitto" (Summit per la Pace organizzato dai membri della Divisione giovani di Hiroshima, Nagasaki e Okinawa), 15 agosto 2012, p. 1.
42) T. de Brum, "Statement at the General Debate of the 3rd Meeting of the Preparatory Committee for the 2015 Nuclear Non-Proliferation Treaty Review Conference" (Dichiarazione al Dibattito generale della Terza riunione del Comitato di preparazione per la Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare del 2015), 28 aprile 2014, http://unrcpd.org/wp-content/uploads/2014/04/28April_MarshallIslands.pdf (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 1.
43) Ibidem.
44) Global Zero, "World Spending on Nuclear Weapons Surpasses $1 Trillion per Decade" (La spesa mondiale per le armi nucleari supera il trilione di dollari ogni decennio), Relazione tecnica del Global Zero, giugno 2011, http://www.globalzero.org/files/gz_nuclear_weapons_cost_study.pdf (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 1.
45) UN General Assembly, "2010 Review Conference of the Parties to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons: Final Document" (Conferenza di Revisione delle parti sul Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari del 2010: Documento finale), 2010, NPT/CONF.2010/50 (vol. I), http://www.un.org/en/conf/npt/2010/ (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 21.
46) ICJ (Corte Internazionale di Giustizia), Legality of the Threat or Use of Nuclear Weapons, Advisory Opinion, I.C.J. Reports 1996 (Legalità della minaccia o dell'uso di armi nucleari, Opinione consultiva, Relazioni dell'ICJ del 1996), 1996, http://www.icj-cij.org/docket/files/95/7507.pdf (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 284.
47) UN General Assembly, "Towards a Nuclear-weapon-free World: Accelerating the Implementation of Nuclear Disarmament Commitments" (Verso un mondo libero dalle armi nucleari: accelerare l'implementazione degli impegni per il disarmo nucleare), A/RES/69/37, Adottato dall'Assemblea Generale, 11 dicembre 2014, http://www.un.org/en/ga/69/resolutions.shtml (ultimo accesso 09 marzo 2015), p. 6.
48) D. Ikeda e A. Toynbee, Choose Life (Scegliere la vita), I. B. Tauris, London, 2007, p. 194, cfr. Dialoghi. L'uomo deve scegliere, Bompiani, 1988, p. 211.
49) J. Monnet, Memoirs (Memorie), Collins, London, 1976, p. 323.
50) G. Westerwelle e Laurent Fabius, "Germany and France at the Service of Europe" (Germania e Francia al servizio dell'Europa), da Le Monde et al., 22 gennaio 2013, http://www.franceintheus.org/spip.php?article4242 (ultimo accesso 09 marzo 2015).
51) S. Yoshino, Yoshino Sakuzo senshu (Opere scelte di Sakuzo Yoshino), 15 volumi, Iwanami Shoten, Tokyo, 1995-96, vol. 8, pp. 218-19.