Sul web e sui social, di solito, i commenti servono a distruggere e ad avvelenare. Non sempre è così, ma questa è la tendenza che ho osservato negli ultimi trent’anni circa, cioè da quando ho accesso a Internet. Con il tempo, ho imparato a non leggere i commenti, e raramente ho voglia di lasciarne qualcuno.
I motivi di questo fenomeno sono stati ampiamente studiati. In sintesi, i commenti “avvelenati” sono agevolati dalla disinibizione online (anonimato, distanza, asincronia), e si nutrono del fatto che le emozioni negative sono amplificate da algoritmi e incentivi che valorizzano ciò che genera reazioni. Le emozioni distruttive si diffondono per contagio, e si incattiviscono con dinamiche di gruppo e polarizzazione. Una minoranza incline a parole violente fa da miccia, bastano poche repliche incivili per avvelenare il tono generale. Un po’ come nelle grandi manifestazioni pacifiche di piazza, dove bastano 100 violenti e armati, contro 100.000 non violenti, per far fallire la manifestazione e trasformare tutto in caos e guerriglia. Paradossalmente, quei 100 violenti credono che senza il loro intervento la manifestazione sia un fallimento, ovvero che una silenziosa non-violenza senza danni fisici sia di per sé un fallimento. Allo stesso modo, tornando alla comunicazione, c'è chi crede che non reagire male e non aggredire sia un fallimento o almeno un segno di debolezza, quando in realtà è tutto il contrario.
Ma anche prima dei social, al tempo del web 1.0 e dei primi sistemi di discussione online, come i vecchi forum, coloro che erano amici nella vita offline, una volta trasferiti online, cominciavano a litigare. La distanza fisica e la separazione dietro uno schermo ci fanno male, è inutile che tutto il mondo dica il contrario.
In tv è uguale, seguire un talk show è all’incirca tanto costruttivo e benefico quanto osservare cani che si sbranano fra di loro. Il linguaggio politico in tv e quello delle persone comuni online spesso si assomigliano: si provoca per far arrabbiare, far litigare e far deragliare una conversazione, sempre cercando di distruggere l’altro. Non c’è mai buona fede in queste dinamiche. Sarcasmo aggressivo, generalizzazioni incendiarie, e osservazioni per gettare discredito, sono il minimo per chi ha voglia di riversare sugli altri tutto il proprio malessere. Ma Internet non ha inventato tutto questo, semplicemente lo agevola.
Di contro, chi prova a scrivere due righe frutto di studio e ragionamento, non viene neanche preso in considerazione dagli algoritmi. E se la lettura richiede più di pochi secondi… auguri! Noi siamo un popolo di scrittori, non di lettori.
Fin qui nulla di nuovo. E allora, perché continuiamo? Perché esistono ancora queste dinamiche? Forse perché la vita è una grande sofferenza e non troviamo altro modo di sfogarci? Ma cosa stiamo facendo?
Comunque, ricordiamoci sempre in che mani siamo. Quanto segue è la traduzione di un brevissimo articolo del Washington Post del 26 ottobre 2021 (fonte):
Cinque punti per la rabbia, uno per un “mi piace”: come la formula di Facebook ha alimentato la rabbia e la disinformazione
Gli ingegneri di Facebook hanno dato un valore aggiunto alle reazioni emoji, tra cui “arrabbiato”, spingendo contenuti più emotivi e provocatori nei feed di notizie degli utenti.
Di Jeremy B. Merrill e Will Oremus
Cinque anni fa, Facebook ha offerto ai propri utenti cinque nuovi modi per reagire a un post nel proprio feed di notizie oltre all'iconico pollice in su “Mi piace”: “Adoro”, “Ah ah”, “Wow”, ‘Triste’ e “Arrabbiato”.
Dietro le quinte, Facebook ha programmato l'algoritmo che decide cosa vedere nei feed di notizie in modo da utilizzare le emoji di reazione come segnali per promuovere contenuti più emotivi e provocatori, compresi quelli che potrebbero suscitare rabbia. A partire dal 2017, l'algoritmo di classificazione di Facebook ha considerato le reazioni con le emoji cinque volte più importanti dei “Mi piace”, come rivelano alcuni documenti interni. La teoria era semplice: i post che suscitavano molte reazioni emoji tendevano a mantenere gli utenti più coinvolti, e mantenere gli utenti coinvolti era la chiave del business di Facebook.
Tutto qua. Semplice, diretto, efficace. "Più stiamo male, più loro fanno soldi", e stiamo parlando di Big Tech. Ma la stessa formula vale per Big Pharma. Vale anche per i fabbricanti d'armi. In ultima istanza, vale per tutta la governance. Così funziona il mondo.
Stare bene è anche una scelta, che si concretizza nel non partecipare a questi meccanismi.
(2 novembre 2025)