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Lo scopo del lavoro?

Riflessioni sul lavoro, tratte dalla Prima Pagina di "Ha Keillah (La Comunità)" di maggio 2020, bimestrale sia cartaceo sia online del gruppo di studi ebraici di Torino: https://www.hakeillah.com/2_20_01.htm.

Qual è lo scopo del lavoro? Perché lavoriamo? Nell'articolo seguente si fa riferimento a bereshit, che in questo contesto indica l'inizio della narrazione biblica, ovvero si riferisce alla Genesi.

Evidenzio in grassetto due paragrafi che mi hanno fatto molto riflettere, fermo restando che io "non so nulla", ma mi piace ragionare. Oltre al grassetto, ho aggiunto anche una sottolineatura.

Francesco Galgani,
20 giugno 2020

Corona, Pil e Messia

di Manuel Disegni

 

All'inizio ho pensato: e se il coronavirus fosse il messia?

La pandemia, mi son detto, è una chance rivoluzionaria. Quale occasione migliore per cambiare radicalmente il nostro rapporto sociale con la natura, se non quella in cui farlo è il modo più sicuro di sopravvivere, e forse l'unico?

La natura... bisogna ancora che troviamo una maniera di andarci d'accordo. Nei suoi confronti ci comportiamo come degli adolescenti fanatici; oscilliamo fra estremi opposti, incapaci di una visione sobria e oggettiva. O la veneriamo come una divinità materna e protettiva (una sorta di eco-paganesimo vegano), oppure la sfruttiamo e ne abusiamo come se fosse lì, gratis, a nostra disposizione, non avesse valore, e potesse essere buttata via e sostituita a nostro piacimento (una sorta di antropocentrismo solipsistico).

La verità è che la natura ci procura molti benefici – come per esempio la salute, il nutrimento, i cieli stellati e molti altri comfort – ma anche tanti pericoli – come per esempio la fame, le intemperie, il coronavirus e altri malanni. Per godere dei primi, e per evitare i secondi, noi lavoriamo. Le cose pare che stiano così fin da principio, fin da bereshit, in cui sta scritto: bezeat apecha tochal lechem, mangerai pane col sudore del tuo volto. Anche i bambini lo sanno.

Ma oggi noi lavoriamo anche per altri propositi (di chi siano questi propositi, è una bella domanda). Lavoriamo per espandere i profitti. I profitti sono – per definizione – quella cosa che può espandersi solo grazie al fatto che del lavoro venga svolto. Dunque noi lavoriamo affinché del lavoro venga svolto. È questo un fine diverso da quello immaginato dall'autore della narrazione di bereshit. Lavorando noi però tendiamo a dimenticarci del principio e del motivo per cui stiamo lavorando (godere le gioie e allontanare i dolori che ci offre la natura), e continuiamo a lavorare.

Sto parlando del capitalismo. Il capitalismo potrebbe essere definito correttamente come quella forma di organizzazione sociale nella quale il lavoro è un fine in sé. Il punto è: lavorare il più possibile. Fra gli inconvenienti di “lavorare il più possibile” vi è quello di nuocere alla salute. Così il capitalismo può essere definito anche come un virus, molto contagioso, che si è diffuso in tutto il mondo negli ultimi due o trecento anni e dal quale la nostra società continua a essere affetta. E non solo la società, ma anche il nostro cervello. Infatti l'idea che il lavoro sia lo scopo finale dell'esistenza umana sta avendo molto successo. Non sono solo i nazisti a pensare che il lavoro renda liberi, ma a quanto pare anche l'Assessorato alle Politiche e al Lavoro del Comune di Napoli, e in certa misura pure gli autori dell'articolo 1 della Costituzione italiana. A guardar bene, tutti quanti lo crediamo almeno un poco.

Che lo crediamo o meno comunque non conta, perché praticamente siamo tutti obbligati a produrre lavoro svolto svolgendo lavoro. Tant'è vero che il principale problema economico delle nostre società ricche e tecnologiche sembra essere la disoccupazione. Non c'è nulla che le spaventa di più del tempo libero. Esse si sforzano di lavorare di più, acciocché si espandano i profitti, acciocché aumenti il PIL (di cui, è bene ricordarlo, la Bibbia non parlava), acciocché l'anno seguente vi sia più lavoro per più gente, acciocché si espandano i profitti… In circostanze ideali lavoreremmo tutti quanti, ininterrottamente e fino a tardissima età. Purtroppo questo non è possibile, ma noi proviamo del nostro meglio. Provando e riprovando, danneggiamo sia la natura esterna, sia la nostra natura propria, la nostra salute e qualità di vita. Senza mai smettere.

Adesso però bisogna smettere – ho pensato quando è arrivato il coronavirus – se non lo facciamo, morremo. E non fra vent'anni, di superlavoro e consunzione, ma fra poche settimane a causa di una polmonite non curata. La pandemia rendeva la minaccia di morte implicita nel lavoro improvvisamente esplicita e immediata per i lavoratori di tutti i paesi e per gli amanti del lavoro di tutte le classi. “Il lavoro uccide” cessava di essere solo uno slogan da scansafatiche. La disoccupazione diveniva la virtù sociale più importante, poiché l'unico modo di prevenire la diffusione del contagio era evitare il maggior numero possibile di contatti interpersonali, e dunque sospendere la nostra quotidiana cooperazione sociale. Non andare al lavoro era quanto di meglio potessimo fare per proteggere tanto la nostra salute individuale quanto quella altrui – quasi come se una mano invisibile si fosse premurata di garantire con matematica certezza l'armonia fra gli interessi individuali e quelli collettivi.

Il coronavirus sembrava sfidare il capitalismo in questo senso: se fino a febbraio 2020 vivevamo in una situazione universale fondata sul principio “lavorare il più possibile”, cioè il capitalismo, a partire da marzo e fino almeno alla distribuzione di un vaccino anti-Covid entravamo in una situazione universale (la pandemia) che richiedeva l'adozione del principio opposto: “lavorare il meno possibile”. La salute pareva spodestare la “crescita” dal suo posto di imperativo categorico dominante. La battaglia fra la protezione di questo bene comune, la salute, e l'esigenza di espansione dei profitti privati non era mai stata tanto aperta da cent'anni (?) a quella parte. Assistevamo a un fatto per tutti noi completamente inedito: erano i medici, e non gli economisti, a dettare la linea politica. “Lavorare il meno possibile”. Nel frattempo Greta Thunberg cominciava già a notare che il cielo era sempre più blu da quando il prezzo del petrolio aveva preso a calare così rapidamente.

Ma che vuol dire – mi sono domandato quando è arrivato il coronavirus – lavorare il meno possibile? Infatti smettere del tutto di lavorare non sembra materialmente possibile (sempre per quella vicenda del peccato originale di cui sopra). “Lavorare il meno possibile” richiederebbe di organizzare il lavoro in maniera diversa dal capitalismo, una maniera che sarà difficile a realizzarsi ma è pur sempre abbastanza facile a dirsi: per lavorare il meno possibile occorrerebbe sospendere la produzione di merci e il libero commercio, e sostituirli con una catena produttiva grande, efficiente e minimale di produzione dei beni essenziali, e con la loro distribuzione gratuita. Si tratterebbe di impossessarsi della tecnologia e delle conoscenze logistiche di cui disponiamo e disporne davvero, impiegandole per garantire a tutti cibo, medicine e servizi sanitari minimizzando il dispendio e il movimento di forza lavoro umana.. I beni prodotti e distribuiti in tal maniera potrebbero poi diventare più vari e più ricchi, via via, con la regressione del contagio.

Per un momento ho pensato che il 2020 non sarebbe stato ricordato solo come l'anno senza scuola e senza gli Europei di calcio, ma anche come l'anno senza PIL. Forse come il primo anno senza PIL.

Invece non sarà così. Quando Ha Keillah va in stampa, le nazioni del mondo si preparano a ripopolare di bacilli maligni i loro luoghi di lavoro (che sono spesso anch'essi maligni). Sfidano la sorte esponendosi ai fragili equilibri di domanda e offerta dell'infezione per scongiurare il rischio di ritrovarsi, l'anno prossimo, disoccupate. E poi se la prendono con le donne, il tempo ed il governo; coi cinesi, gli olandesi e con chi va a fare jogging, perché il messia non arriva mai.

Manuel Disegni

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