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Studiare serve a confermare la propria ignoranza?

Anni di studio “matto e disperatissimo”, di leopardiana memoria, dove possono portarci? Secondo me, sono possibili almeno due “punti di arrivo”, seppur temporanei.

Il primo, auspicabile, è quello di prendere consapevolezza della propria non-conoscenza e dell’impossibilità di conoscere, giacché la realtà è fatta di opposti compresenti che non possono coabitare serenamente nella propria mente, a meno di non scivolare nell’orwelliano bipensiero (nel peggiore dei casi) o d’abbracciare completamente la disorientante impostazione filosofica di Nagarjuna (nel migliore dei casi). Nagarjuna dimostrò il carattere erroneo di tutti i concetti che gli esseri umani considerano come veri. Se vogliamo comprendere la realtà con il ragionamento, infatti, inciampiamo in una contraddizione dopo l'altra, perché nessuna cosa ha una sua caratteristica inalterabile da poter offrire come sicura garanzia. Da questo punto di vista, il paradosso socratico di sapere di non sapere mi pare la posizione più equilibrata, sebbene non possa salvarci dal rischio della follia. Casomai, se abbiamo la fortuna di essere abbastanza introspettivi, può aiutarci ad essere più consapevoli della nostra inevitabile follia.

Il secondo punto di arrivo, al contrario, è quello di sapere di sapere. Questo ci aiuterà a strutturare il nostro ego, a provare a svolgere il nostro lavoro nel migliore dei modi, e a relazionarci con gli altri mostrando competenza. Potremo dare consigli e darci da fare per il bene di tutti o, estremizzando, per salvare il mondo (solitamente facendo quasi soltanto danni, sbandierati come opere di carità, di generosità o persino di filantropia). Impareremo che, per avere successo ed essere credibili, non dobbiamo mai mostrare incertezze. Come ci suggerisce la programmazione neurolinguistica, è sempre meglio inventare una risposta convincente piuttosto che tacere di fronte a domande su cui, in verità, avremmo poco o nulla da rispondere. In sintesi, questo punto di arrivo è quello di chi esibisce idee chiare su se stesso, sulla vita e sulle proprie competenze. Se poi tale esibizione di chiarezza sia reale o simulata, è un altro discorso.

Ad un primo sguardo, il primo e il secondo punto di arrivo sembrano agli antipodi. In realtà, sono lo stesso punto o, detto in altro modo, sono due punti sovrapposti. E, in quanto temporanei, sono due punti sovrapposti che si spostano continuamente, perché, in fondo in fondo, non c’è nessun punto di arrivo.

Ma allora, se anni di studio matto e disperatissimo non hanno alcun punto di arrivo, cosa possiamo dire di noi stessi? Cosa possiamo rispondere alla domanda “Chi sono io?”. Anzi, meglio ancora, alla domanda: “Io esisto?”. Forse questa, che potrebbe sembrare la domanda delle domande (che peraltro quasi nessuno si pone), è mal formulata, perché non ci sono né esistenza né non-esistenza. Di un oggetto, di un essere vivente, di noi stessi, di un qualsiasi ente concettualizzabile o persino nominabile ma non concettualizzabile (come nel caso di Dio) non si può dire né che “è così”, né che “è non così”; né che “è ambedue”; né che “non è ambedue”. Giacché tutto ciò che esiste o non esiste ha la caratteristica di esistere o di non esistere in base alle relazioni con qualcos’altro diverso da sé, tutte le cose sono prive di natura propria, per cui, a seconda del punto di vista, sono una cosa o un'altra. E soprattutto, panta rei, tutto scorre, in un flusso d’impermanenza che porta via tutto, anche la paura di vivere, la paura di morire, e la pretesa di capire... ma solo se sappiamo stare nel flusso, altrimenti sarà soltanto dolore.

(21 agosto 2022)

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