Di ogni situazione possiamo riconoscere gli opposti: se è negativa, è anche positiva; se è sbagliata, è anche giusta; se è benefica, è anche dannosa. Non per alternanza o per contesto diverso, ma nello stesso momento e nella stessa circostanza. Gli opposti sono compresenti nel medesimo fatto.
Questa postura mentale non confonde i piani, li allarga. Non dice che “tutto è uguale”, ma che ogni evento è eccedente rispetto alle nostre etichette. La sofferenza inutile nasce spesso dalla pretesa che la realtà si lasci dire in un solo modo: o bene o male, o giusto o sbagliato. Riconoscere la compresenza degli opposti scioglie quella presa, e con essa molte rigidità emotive.
La compresenza: non alternanza, ma sovrapposizione
Se diciamo che “una sconfitta è distruttiva e formativa”, non intendiamo che “oggi distrugge, domani forma”, né “per me distrugge, per te forma”. Intendiamo che qui e ora, nello stesso evento, coesistono un logorio e un apprendimento; un impoverimento e una messa a fuoco. L’esperienza umana è fatta di livelli sovrapposti che si muovono insieme, spesso in direzioni opposte. Ad esempio, la franchezza è virtù perché rende trasparente, ed è mancanza di tatto perché ferisce: la stessa frase, lo stesso istante, due verità opposte e simultanee.
La simultaneità è il modo in cui funzionano gli insiemi complessi. In un organismo, un intervento può guarire un organo e stressarne un altro; in una relazione, un limite posto oggi protegge il legame e provoca dolore. Non c’è da scegliere quale lato opposto “esiste davvero”: esistono entrambi.
Perché questa vista libera dalla sofferenza
Scioglie l’ansia da coerenza
La pretesa di un vissuto “puro” (solo buono, solo giusto) genera guerra interiore ogni volta che compare l’altro lato. Se ammettiamo che ogni atto, parola, pensiero o intenzione ha luci e ombre, non dobbiamo più sopprimere metà di ciò che sentiamo per restare fedeli a un’immagine di noi stessi.
Disinnesca il moralismo verso sé e gli altri
Se l’azione altrui contiene simultaneamente ingredienti ammirevoli e problematici, diventa più realistico e compassionevole vederne le cause, meno urgente cercare colpevoli. L’energia risparmiata va alla comprensione.
Ridimensiona il catastrofismo
Il dolore resta, ma smette di essere “tutto”. In ogni perdita c’è anche una forma di apertura; in ogni successo, anche un prezzo pagato. Questa doppia vista decresce l’assoluto del giudizio e, con esso, l’intensità della sofferenza a corredo.
Che cosa cambia nel nostro modo di pensare e parlare
Dal “ma” all’“anche”
“È doloroso e ha anche chiarito ciò che conta”. “È generoso e anche invadente”.
L’“anche” non attenua: tiene insieme.
Dai nomi rigidi ai verbi viventi
“È un fallimento” congela. “Mi ha ferito e mi ha messo in moto” mostra movimento.
I verbi accolgono l’ambivalenza senza negarla.
Dalla purezza al limite
Non cerchiamo azioni prive di controindicazioni, non esistono. Cerchiamo azioni in cui il bene che perseguiamo è maggiore del danno che inevitabilmente coesiste.
Un’etica dell’“anche”
Vivere così non addolcisce la vita: la rende vera. Significa smettere di trattare la contraddizione come un difetto da eliminare e cominciare a leggerla come una struttura inevitabile del reale. L’effetto pratico è una libertà più sobria: meno sforzo nel negare ciò che c’è, più disponibilità a portarne il peso, meno bisogno di assoluti, più precisione nel bilanciare.
Riconoscere gli opposti ci rende capaci di non aggiungere sofferenza alla sofferenza: non combattiamo contro metà dell’esperienza, non espelliamo parti di noi o degli altri per restare “coerenti”. È un realismo gentile: lasciamo che la realtà sia ampia, sia semplicemente ciò che è.
(2 novembre 2025)